venerdì 22 ottobre 2010

Un muto sorriso

Io non sapevo cosa volesse dire prendere le botte. Così quando quell’uomo mise le sue mani sul mio collo, cercando di strozzarmi, non capii subito le sue intenzioni. Abituato ai giochi pensai ne avesse inventato uno nuovo, diverso. All’inizio sorrisi cercando di nascondere l’imbarazzo che mi pervadeva, poi riuscii a liberarmi e gli chiesi d’insegnarmi a giocare. Mia mamma era lì e ci guardava. Non aveva alzato neppure un dito per difendermi e trapelava dal suo sguardo una strana voglia. Se fosse stata contenta di vedermi morto? Sicuramente mi sbagliavo, era colei la quale mi aveva concepito. Lui non aveva mai alzato neanche la voce con me; quindi col suo modo naturale e spontaneo, cercando di non ferirmi ed usando un tono che somigliava molto alla voce del pupazzo di Dario Argento in “Profondo rosso”, disse:
Devi cercare di capirmi. Tua madre mi ha confessato che un giorno, otto mesi prima che nascessi tu, ha avuto un incontro casuale con chi io, fino ieri, ho creduto essere il mio migliore amico. Dopo due ore in cui i loro corpi espressero la ferrea intenzione di non separarsi, decisero di non continuare la frequentazione saltuaria che avevano appena iniziato. Io a quel tempo lavoravo all’estero e non sarebbe stato facile farmi intendere che nel futuro prossimo venturo sarebbe venuto al mondo un figlio mio. Quindi, con l’astuzia che l’ha sempre contraddistinta, è partita in aereo venendomi a trovare e facendomi credere che io le mancassi. Abbiamo avuto un fugace incontro in una saletta nascosta, in un bagno per intenderci, dell’aeroporto, e qualche giorno dopo mi telefonò per dirmi che tu eri nella sua pancia. Quando sei venuto al mondo mi meravigliai del mese di anticipo che ti eri preso, ma mi convinse che tutto era avvenuto in buona fede. Capita che un bimbo nasca prima del dovuto. Non capivo nulla di parti e nascituri. Perciò, nonostante tu pesassi quasi cinque chili, non ho esternato perplessità accettandoti come mio. Ma ora, dopo aver parlato con il ginecologo, dopo aver trovato una quantità enorme di preservativi in casa ed avere visto alcune registrazioni filmate che la ritraggono in pose degne della migliore tradizione suina, mi sono reso conto che sono stato vittima di un raggiro e che tua madre è un incrocio tra diverse razze animali, quali vacche e gatte in calore. E’ per questo che non voglio tu rimanga in vita, mi ricorderesti gli incesti avvenuti dando alla mia mente un’incessante e continua quantità di virus stressanti che potrebbero portarmi a malattie che non voglio nemmeno pronunciare.”
Ero un bimbo di appena due anni quando sentii questo discorso e nove decimi delle sue parole non le avevo capite. Ma se non erravo, e non credevo di errare, volevano dire che mia madre l’aveva cornificato ed io non ero suo figlio. Da quell'attimo la mia mente cominciò a far spazio ai ricordi recenti. Pensai al costante ed incessante andirivieni di uomini in casa e non potevo negare che al mio ex padre potessero dare fastidio quelle frequentazioni mondane di chiara matrice erotica. Immaginai che sarebbe stato molto difficile vivere con una persona del genere, specialmente per il modo di esprimersi che aveva, e gli feci capire, usando un linguaggio appropriato alla mia giovane età e gesti manuali inequivocabili, che sarebbe stato meglio, piuttosto di finire in galera, se ne fosse andato abbandonandoci al nostro destino. Ho riassunto il significato per non scandalizzarvi con il lungo turpiloquio che la mia bocca, ed il mio linguaggio ancora infantile, aveva messo in essere, in quel periodo ero molto loquace. Lui se ne fece una ragione e partì. Mia madre ci rimase male perché le venivano a mancare diversi sostegni economici. Fu in quel momento che recepii appieno la situazione, il suo svago non era di tipo lavorativo e quindi non aveva ritorni materiali da quelle assidue frequentazioni che riteneva un hobby come, ad esempio, andare a pesca di pesci. All’inizio cercò di darmi tutte le attenzioni di cui avevo bisogno, poi con il tempo s’indurì e riprese a frequentare la parrucchiera ed i saloni di bellezza. Quando mi lamentavo perché stare in casa senza mangiare, sia a mezzogiorno che a sera, non era il massimo che un bambino poteva avere dalla vita, mi rimproverava dicendomi che la colpa di tutto ciò che le era capitato doveva essere addossata solo ed esclusivamente a me! 
Lei era bellissima. Almeno durante la giornata visto che l’Enel ci aveva tolto i contatori ed era difficile vederla nel buio della notte! Capivo del suo ritorno a casa dalle scarpate che dava al comò e dai successivi rumori e mugugni che uscivano a getto continuo dalla sua bocca. Se osavo dirle che a quattro anni un figlio va curato e trattato in un’altra maniera mi diceva che lei non aveva bambini. Secondo il suo punto di vista, condivisibile o meno, avrei dovuto arrangiarmi sia col mangiare che coi vestiti. Era capibile mia mamma. Ed a volte piangeva quando si chiudeva in camera sua. Così cercai di trovare un modo per arrangiarmi. Mi vestivo meglio che potevo, arrotolandomi addosso i pantaloni e le maglie lasciate dal mio ex padre, e mangiavo ciò che i vicini buttavano. Giocavo con i cani dell’isolato e, per fare in modo di riempirmi  la pancia, aprivo i cancelli e li liberavo in strada; appena i loro padroni accorrevano per recuperarli m’insinuavo nelle dispense altrui riempiendo anche lo zaino che mi portavo sempre appresso. Una volta in camera mia nascondevo il tutto fra le coperte, tanto già da molto tempo mia madre aveva smesso di fare il letto ed il bucato. Ormai non le potevo più considerare solo lenzuola. Erano un po’ di tutto. Una foresta per gli acari ed una giungla per i bigatti. Comunque, prendendola in maniera filosofica, avevo deciso di inventare un nuovo colore, lo sporco. Dormivo nelle parti più pulite per dare loro la stessa tonalità del resto e non lasciare chiazze diversificate. Purtroppo ci avevano staccato anche l’acqua e non avevo la possibilità di lavarmi. Ma anche se l’avessi avuta non avrei saputo come fare visto che nessuno mi aveva mai insegnato il meccanismo usato nei lavaggi. Per bere mi spostavo nelle cantine dove gli inquilini tenevano le scorte di minerale. Sembra incredibile a dirsi ma per almeno tre anni andai avanti così. Perlomeno credevo fossero tre anni... mi basavo esclusivamente sul mio aspetto. A quel tempo pensavo di dimostrarne sette anche se, ad essere onesto, quando andavo allo specchio e mi guardavo non capivo nemmeno io cosa realmente riflettesse e si vedesse. 
Ero un bambino vivace ma non avevo nessun dialogo, quindi facevo fatica a scandire le parole. A volte provavo a parlare con me stesso ma non comprendevo il significato di ciò che mi dicevo e, di conseguenza, facevo molta fatica a rispondermi. Per questo decisi di smettere di dire cavolate. Quando sentii bussare e vidi dallo spioncino degli uomini vestiti in modo strano non ebbi il coraggio di aprire. Non sapevo chi erano ed anche se sentivo i vicini chiamarli Vigili non capivo chi fossero e cosa volessero. Così, mentre loro cercavano di entrare, mi nascosi sopra l’armadio. Ci riuscirono grazie ad un'altro strano signore munito di trapano, punte, mazza, scarpelli e martello pneumatico. Una volta arrivati all'interno li sentii parlare.
Stai in occhio, guarda bene dappertutto, fai attenzione.”
Fu quel dialogo che mi fece capire il perché del loro nome. Il lavoro li portava ad esseri vigili ed accorti! Una botta improvvisa, l'urlo e la successiva imprecazione, mi fecero comprendere perché non li avessero chiamati "svegli"... bastava ed avanzava vigili. Un altro schianto ed i seguenti lamenti aumentò la mia convinzione che forse avrebbero dovuto mettere anche un punto di domanda dopo la parola, in modo che si pronunciasse: Vigili?Al terzo tonfo la mia opinione su di loro era precisa e legittima. Dopo pochi minuti di silenzio ripresero il dialogo.
Che cavolo di puzza è?”
C’è sicuramente un cadavere andato a male in casa.”
Chiama la squadra speciale.”
Non abbiamo una squadra speciale.”
Chiama i Vigili.”
Siamo noi i Vigili.”
Allora chiama i pompieri.”
Non ho il telefono.”
Continuarono a disquisire mentre a me prese quasi paura. Un morto in casa? Cos'era un morto? Un animale?Chi poteva essere? Sentii dire che si trattava dello scheletro di una donna. Lo scheletro di una donna? Che fosse mia madre? In effetti era ormai molto tempo che non la sentivo tornare la notte. E nemmeno partire nel pomeriggio. Inoltre da sotto la porta della sua camera uscivano strani animaletti colorati con cui avevo giocato diverse volte. Feci un urlo e mi cadde una goccia dagli occhi. Non era tristezza la mia; c'era un topo dove mi ero nascosto che aveva infilati i suoi denti nel mio polpaccio. Forse l'odore era simile a quello del formaggio. Gli presi i baffi strappandoglieli ad uno ad uno. Lui mi guardò supplichevole come per chiedermi scusa. Purtroppo quel grido mi fece scoprire. Quando scesi rimasero tutti a bocca aperta. Anzi no, quella fu l’unica cosa che tennero chiusa ed addirittura coperta dalla mano! Sul loro viso uno stupore genuino lasciò spazio a strane frasi. Ma non cercarono di avvicinarsi; anzi, se mi accostavo a qualcuno questo sembrava preso dal ballo di San Vito. Si dimenavano e si contorcevano nascondendo il naso sotto i baveri delle giacche.
Prendi quella cosa, sbrigati!”
Prendila tu!”
Chi è che comanda qui dentro?”
Io!”
Allora aspetta un attimo che chiamo Pietro e Paolo.”
Arrivarono due dall’aspetto rassegnato.
Catturate quell’essere, subito!”
Loro lo guardarono senza reagire. Erano proprio due Santi! 
Io, che mi ero appiattito ad una parete, chiusi gli occhi aspettando gli eventi. Passarono circa due ore, in cui ebbi modo di fare anche un pisolino, poi fu il buio. Mi avevano avvolto in una coperta sterilizzata, così la chiamarono, e dentro quella mi trasportarono all’esterno. La gente guardava chiedendosi chi fosse quella strana creatura. C'era chi parlava di profughi albanesi nani, chi di ratti giganteschi, chi era convinto fossi una sorta di coccodrillo, uno di quelli scappati l’anno prima dallo zoo e nascostisi nelle fogne. Mi chiesi a quali droghe si fossero affidati negli anni. Al canile comunale dovettero utilizzare almeno dieci metri cubi d’acqua ed una ventina di saponi e barattoli di shampo, oltre ad una non precisata quantità di spugne in acciaio, prima di capire che ero un bambino. Quando se ne accorsero mi trasferirono in ospedale. Il Primario mi vide e diede nuovamente l’ordine di lavarmi. Non voleva un essere così sporco e puzzolente nelle sue corsie. Allora, per pulirmi al meglio, andammo in sala operatoria e mi tolsero le prime cinque pelli. Per giustificarsi dissero che il lerciume si era annidato in profondità, molto in profondità. Stetti parecchi mesi steso su un letto, tutto impomatato e fasciato con bende che mi coprivano anche parte degli occhi. Mi alimentavano con un tubicino che dava il sapore di plastica a tutti gli ingredienti inseriti nel mio stomaco. Solo quando lo tolsero e cominciarono a farmi mangiare omogeneizzati capii che i pupi ai primi mesi di vita non hanno il gusto sviluppato. Il sapore non era quello che conoscevo, non c’era quel “che” di petrolio che tanto mi piaceva. Passarono diversi giorni; le infermiere s’erano accordate e messe in testa d’insegnarmi a parlare. Le mie corde vocali però erano ormai raggrinzite e dalla bocca mi usciva solo una parola: “Pappa”. Quindi mi rimpinzavano anche quando non avevo fame.
Se non ne vuoi più basta dircelo.”
Pappa.”
Portane dell’altra, poverino chissà da quanto tempo non mangia.”
Per colpa di quelle maledette cinque lettere ad otto anni pesavo quasi ottanta chili. Dovevo smettere di parlare oppure cambiare vocaboli. Così la notte mi esercitavo. A furia di provare riuscii a modificare “Pappa” in “Cacca”. Sorsero altri tipi di problemi. Quelle brave donne mi facevano passare le giornate in bagno. Quando non andavo di corpo mi riempivano di lassativi e, inoltre, tutto quello scombussolamento mi faceva sentire un enorme bruciore nelle parti interessate. Però in due mesi persi più di quaranta chili tornando al mio peso forma. Dovevo assolutamente ampliare il mio linguaggio. Così mi esercitai e dopo quindici giorni, in cui ero dimagrito ulteriormente arrivando a trentacinque, riuscii ad esprimermi meglio imparando la parola “Basta”. Mi avevano insegnato anche a lavarmi ed a mettermi il pigiama. Ormai, a quasi nove anni, mi sentivo pronto per affrontare il mondo. 
Una sera, approfittando dell’assenza di un’infermiera impegnata a ripassare strani argomenti anatomici con il dottore di turno, aprii la porta che mi avrebbe portato all’esterno. Avevo un fagotto in cui era stipata ogni cosa fosse possibile mangiare. L’unico scrupolo mi venne per il vestiario. Era notte, e quello che avevo addosso andava bene in quelle ore, ma l’indomani cosa avrebbero pensato di me le persone? Decisi di aspettare la luce per capire i loro pensieri. Nel frattempo osservai la città. Non ero mai uscito col buio e quello che vidi m’impressionò molto. Donne vestite, si fa per dire, più leggere di me, salivano e scendevano in auto non loro. Andavano, tornavano, e camminavano sculettando sul marciapiede. Decisi di soprannominarle “passeggiatrici notturne”. Cercai di capire quello strano comportamento, però arrivò mattina e mi trovai solo e spaesato in quei viali senza averlo ancora compreso. Cominciarono a passare le prime auto, poi i pullman stracarichi di persone, i motori, i tram, tutto s’era fatto caos. Mi sedetti in una panchina aspettando che tornasse la sera. In quel giorno capii che la notte è la parte più corta dell’intera giornata. Ero fermo in quella posizione da ore ed ore e la luce non se ne andava mai. Allora presi il fagotto cominciando a mangiare avidamente due mele. Un uomo vestito in maniera trasandata si sedette al mio fianco guardandomi. Io non conoscevo l’educazione e quando mi chiese qualcosa da mangiare gli diedi i torsoli, come facevo con i topi di casa mia, solo che loro sembravano contenti e lui invece aveva uno strano ghigno. Presi in fretta la mia roba andandomene. Una signora paffuta mi fermò mentre correvo sul marciapiede.
Dove va questo pupo impigiamato?”
Non sapevo quali dei miei pochi vocaboli estrapolare per rispondere. Avevo paura a dire “cacca” e non sentivo fame al momento. Optai per “mamma” sperando che mi lasciasse in pace.
Stai cercando la tua mammina? Poverino, aspetta che vediamo se quel signore ci da una mano.”
Quello che lei chiamava signore era un vigile. Si capiva da come controllava attentamente gli scontrini del parcheggio all’interno delle auto. Non mi andava di essere rimesso sotto una coperta ed appena la donna si voltò presi la corsa girando l’angolo. L’avevo scampata bella! Mi accorsi di una gelateria aperta e mi affrettai a mettermi in fila. Quando arrivò il mio turno segnai con un dito il cono più grande e con un altro la prima donna che vidi voltata di spalle. Andandomene mi accorsi del trambusto che il mio comportamento aveva creato, allora ricominciai a correre. Non era poi così difficile sopravvivere. Bastava fare un poco d’allenamento; ed io nei giorni successivi cominciai la preparazione. Di notte studiavo i movimenti delle passeggiatrici notturne, di giorno imparavo a conoscere la gente. Passò una settimana e mi resi conto che ancora non avevo dormito. Come ovviare a questa cosa? Non avevo sonno ma sapevo che bisognava chiudere gli occhi e riposarsi. Così mi stesi su una panchina ed aspettai. Passavano i minuti ed io mi sentivo vispo più che mai, ma alle prime luci cominciai a sbadigliare e gli occhi si chiusero. Li riaprii che era di nuovo buio. Vidi nel fazzoletto che mi era caduto a terra un’enorme quantità di ciò che poi imparai essere monete. Lo raccolsi cercando di contarle ma mi resi conto che nessuno mi aveva mai insegnato a farlo. Ci rimasi male. Avere tanti soldi e non sapere quanti fossero mi dava l’ansia. Allora li nascosi ed aspettai il mattino per cercare di sapere qualcosa in più sui numeri. Guardavo i venditori ambulanti prendere fogli di carta e modificarli con delle monete come le mie. Che strano mondo pensai. Scovai anche un negozio, che sentii chiamare banca, pieno di quei foglietti. Vidi le persone nasconderli in una specie di piccolo marsupio; le donne lo infilavano nella borsetta o nelle sporte della spesa, gli uomini lo mettevano nella tasca posteriore dei pantaloni. Alcuni sembravano strapieni e sporgevano all’esterno, altri erano striminziti o quasi vuoti. Dopo un mese, in cui dormivo di giorno e stavo sveglio la notte, mi accorsi dalla grande quantità di monete nascoste addosso a me. Cercai di trovare un luogo dove mettere quell’ammasso ferroso e molto pesante che avevo racimolato. A forza di guardare le scritte sui tram, di segnarle con un dito in modo che le persone mi dicessero il significato, ero ormai padrone dei numeri. Arrivavo a contare fino a nove. Quindi cominciai la conta di quei pezzi tondi. Però trovai subito dei problemi. C’erano monete piccole dove era scritto un cinque con uno zero, e monete grandi dove dietro al cinque erano due O. Che numeri erano mai quelli messi davanti ad una lettera? Quale era l’inghippo? Dovevo chiedere aiuto. Il giorno dopo entrai in uno di quei negozi chiamati banca e mi misi in fila. Il fatto che da ormai due mesi non mi lavassi fu fondamentale, tutti mi lasciarono passare; il venditore era all’interno, protetto da spessi vetri, quindi non poteva annusarmi. Tirai fuori tutte le monete e le misi sul piano aspettando di vedere il suo comportamento.
Vuoi dei soldi di carta?”
Riuscii a dire sì mentre le persone commentavano il mio modo di pormi. Per tutti ero una sorta di zingaro e non si meravigliarono di vedere i duemilioni di lire che quel signore, chiamato cassiere, mi aveva allungato dalla sua postazione. C’erano dei signorini impomatati vestiti di tutto punto, che soprannominai “fighetti”, con strani cosi scuri a protezione degli occhi. Li guardai chiedendo loro se i soldi che avevo raggranellato fossero pochi o molti? Mi osservarono, partendo dai capelli ed arrivando ai calzini, come se fossi stato l’ultimo dei barboni. Conoscendo una parola appropriata la usai, mandandoli in bagno. Per capire meglio la quantità di danaro che avevo provai ad entrare in un negozio dove facevano panini. Ne chiesi uno e sperai che i soldi mi bastassero. Dopo avermi fatto mille domande inutili sui miei gusti me lo diedero mandandomi alla cassa. La signorina mi sorrise chiedendomi duemila lire. Le diedi un foglio dov’era un cinque con quattro O, lei mi diede tanti altri soldi di resto. Capii che per finire tutto il mio avere dovevo comprare tantissimi panini. Avrei mangiato in eterno! 
Un giorno mi accorsi che la gente cominciava ad evitarmi. Alcuni si tappavano il naso, altri giravano al largo. Forse sarebbe stato meglio darsi una lavata, ma dove? Trovai una piazza con al centro una fontana che zampillava meravigliosamente. Entrai in un negozio ed acquistai un barattolo di sapone liquido ed uno shampo. Corsi all'esterno ma poi rallentai, nessuno si azzardava a scavalcare le catene che portavano all’acqua. Stavo per entrare quando capì il perché. Per lavarsi avrebbero dovuto spogliarsi. Si doveva provare vergogna a stare nudi fra la gente? Non volevano che gli altri scoprissero cosa avevano sotto i vestiti? Pensai che anch’io dovessi tenermi per me il mio aspetto interiore. Allora mi appartai aspettando il buio. Non era ancora sceso completamente che già alcuni fari cominciarono ad illuminare quella cosa schizzante. Poco m’importava, avrei aspettato fino a quando le persone non avessero fatto ritorno alle loro case. L’attesa fu lunga e noiosa, ma come previsto quel luogo ad una certa ora rimase vuoto. Scavalcai le catene e mi spogliai; misi tutto il mio corpo sotto un getto d’acqua, fra l’altro gelato, e versai tutto il contenuto della bottiglia sui capelli. Schiumavo da ogni parte. Ormai ero nascosto al mondo da una parete incredibilmente bianca e profumata. Nonostante le mie mani sfregassero, cercando di togliere lo sporco, ogni volta che mi guardavo ne trovavo dell’altro. Allora usai anche il sapone. Dopo molto tempo mi vidi perfettamente pulito. La schiuma però non accennava a diminuire, come sciacquarmi? Decisi di uscire ed aspettare che tutto tornasse come prima della mia entrata. Però dovevo anche asciugarmi, se avessi usato il pigiama mi sarei sporcato nuovamente. E con cosa mi sarei vestito? Scesi arrivando alle catene. Lo show schiumoso era impressionante e bellissimo. La fontana, completamente nascosta da una coltre bianca, non faceva fuoriuscire nessun particolare di quel marmo. Ero nudo ai piedi dello spettacolo più bello del mondo, anche perché avevo trascorso la mia vita in casa o all’ospedale, per questo non mi accorsi delle mani che mi avevano afferrato. Il solito vigile mi mise sotto la solita coperta. Non era lo stesso della volta precedente, anche se gli somigliava molto nei modi di fare. Pensai che nel fresco della notte vigilassero meglio, che fossero più svegli. Appena fui in corsia m’addormentai pensando di fuggire alla prima occasione. Quando mi svegliai aprii il cassetto del comodino vedendo che i miei soldi erano tutti lì, anche gli spiccioli. Mi avevano messo un pigiama rigato di bianco e di azzurro, dovevo assolutamente trovare dei vestiti. Cominciai a girare per i corridoi, altri bambini erano presenti oltre me. Aspettai sperando che si spostassero dalle loro camere. La mia attesa fu premiata e feci man bassa di abiti. Avevo trovato anche un paio di scarpe. Nascosi tutto complimentandomi per la furbizia.  Ero pronto per una nuova fuga! Decisi di non aspettare la notte, così mi vestii e chiamai l’ascensore; una volta all’interno spinsi sulla O, gli altri erano tutti numeri! Le porte si aprirono e mi trovai in un corridoio in fondo al quale si vedeva l’esterno. Camminai cautamente, cercando di non insospettire nessuno, ed uscii. Non avevo fagotti con me ma mi ero portato appresso i soldi. Avevo capito che senza quelli al mondo non si poteva vivere. Presi il primo tram, non m’importava dove fosse diretto. Vidi una strada addobbata e piena di negozi, mi piacque e scesi. Ora potevo dire d’essere una persona libera. Comprai subito un gelato e mi sedetti in una panchina. Osservavo le cose intorno, gli alberi e i piccioni. La gente non aveva tempo per guardarmi, tutti andavano di corsa presi da una fretta contagiosa. Io potevo permettermi di non muovermi, di restare seduto a pensare, loro no. Chissà perché non riuscivo più a stare sveglio. Di giorno dormivo e la notte, dopo avere passato qualche ora ad osservare il mondo ed a mangiare, mi sentivo nuovamente stanco. Passarono i mesi e mi accorsi che c’era qualcosa di diverso nell’aria, sentivo più freddo sulla pelle nonostante fossi vestito. Avevo quasi dieci anni e non dovevo preoccuparmi di niente. Anche se mi fossi raffreddato non sarebbe stato un grosso guaio. Comunque cominciai a camminare perché mi accorsi che il movimento mi scaldava. Arrivai in Centro e vidi diverse vetrate illuminate. Chiesi ad un signore cosa fosse e mi rispose: "O bella figliolo, non vedi che è un cinema? Dove si proiettano i film, capito?". Non avevo mai visto un film e mi chiesi cosa fosse, ma non avendolo mai visto non riuscii a darmi una risposta esauriente. Allora decisi di entrare. La signora mi vide e, indicando la locandina, mi fece segno di tornare indietro. Stavo uscendo quando la sentii parlare con un suo collega.
Ma pensa te, avrà avuto meno di dieci anni e voleva vedere un film a luci rosse. Cavolo se si svegliano presto i bambini di oggi! Quello se continua così scapperà sicuramente da casa prima o poi!”
Chissà perché non mi avevano fatto entrare. Per quale motivo usavano le luci rosse? Arrivai alla conclusione che i bambini, anche se hanno i soldi, non li possono vedere i perché il rosso rovina la vista. Questo mi rattristò molto dato che in un altro cinema notai all’esterno un manifesto con dei disegni. Poi mi accorsi dei ragazzini che entravano con i genitori. Allora capii che non si poteva entrare se si era soli, ma in compagnia sì. Quindi mi aggregai ad un gruppetto, allungai ad una signora un soldo uguale a quello dato dagli altri ed in cambio ottenni un fogliettino che, chissà per quale motivo, mi venne poi strappato. All’interno c’era molto buio, come quando è notte e tu hai la finestra aperta. Degli strani animali stavano parlando appiattiti al muro. Io non avevo mai sentito chiacchierare le bestie, era una cosa nuova e ne avevo un po’ paura. Quando il papero col cappello prese quello strano e lungo oggetto che sputava fuoco e palline, tirandole addosso al coniglio, fu il panico. Tutti ridevano ma lui diceva d’essere morto! Quando si rialzò tirai un sospiro di sollievo... poi cominciai a pensare. Allora quando uno muore non lo fa veramente! Perciò la mia mamma è ancora viva! Dovevo correre a casa e controllare. Ora avevo i soldi e lei sarebbe potuta restare con me. Corsi fuori e cominciai a cercare la strada dove avevo abitato. Mi ricordavo i cani e le ringhiere ma non mi riuscì di trovarla. Dovevo riposarmi, avrei cercato ancora l’indomani tanto ero libero e non avevo impegni. Il freddo, però, mi entrava nelle ossa e non riuscivo a stare su quella panchina. Decisi di tornare per una notte all’ospedale, lì era caldo, ma non sapevo quale tram prendere. Ancora le parole non uscivano con un senso compiuto dalla mia bocca, ma a forza di provare riuscì a biascicare ciò che volevo dire. Mi risposero che dovevo salire sul quattordici. Ma io arrivavo a contare fino a nove! Ciò che qualche giorno prima mi sembrava sufficiente ora non bastava più. Dovevo ampliare le mie conoscenze, sia letterarie che matematiche. Ebbi l’idea di sdraiarmi a terra e fingermi morto. La folla passava senza guardarmi, com’era possibile! Ruzzolai, strisciai, ma nessuno faceva caso a me. Poi finalmente una donna si fermò, mi chiese se avevo bisogno d’aiuto ed io riuscii a dire: “male”. Lei chiamò i Vigili; quella sera, forse, erano un po’ meno vigili del solito perché ci misero un paio d’ore ad arrivare! Quando mi videro, come al solito, mi coprirono. Pensai che fossero obbligati a girare con una coperta, o che per risolvere loro problemi esistenziali cercassero in quel panno una sorta di sicurezza. Mi accompagnarono all’ospedale, non era uno di quelli precedenti. Ogni volta mi avevano registrato con nomi diversi, stavolta sopra al letto c’erano sei lettere. Quando l’infermiera mi guardò, chiamandomi Davide, decisi d’impararmi quel nome e di tenermelo. Io sono Davide, io sono Davide. Lo ripetevo all’infinito. D’altronde una persona ha bisogno d’essere chiamata in qualche maniera. Io sono Davide. Ormai ero convinto. Ed inoltre mi piaceva come nome. Qual’era il mio? Quello vero? Non mi ricordavo niente. Nemmeno il viso di colui che non era mio padre. Sotto quelle coperte stavo bene. Decisi che sarei uscito il giorno e tornato la notte per dormire. Ma avevo fatto i conti senza conoscere l’aritmetica, quindi sbagliandoli. La mattina dopo venne una signorina accompagnata dai soliti vigili. Io mi guardavo attorno, non avevo visto la coperta e mi aspettavo che la tirassero fuori da un momento all’altro, invece non comparve. Però mi caricarono portandomi in una specie di convento. I muri di recinzione erano alquanto alti e le stanze avevano la serratura. Come avrei fatto a scappare? A girare libero per il mondo? Una volta rimasto solo provai ad aprire la porta. Non era chiusa a chiave ma all’esterno stava una suora che aveva la stessa larghezza di un tram. Non avrebbe mai potuto fare la passeggiatrice notturna, non stava sul marciapiede! Lei mi osservò prima di parlare.
Non hai lo sguardo cattivo Davide, ma devi imparare a rispettare i regolamenti. Prima regola esci solo quando io ti chiamo, hai capito?”
Probabilmente aspettava una risposta. Ero terrorizzato e non riuscivo a dire quel sì che lei voleva sentire. Allora si avvicinò col suo fisico possente. Mi aveva incantonato in un angolo del muro ed io risultavo invisibile, se mi avesse preso a schiaffi avrebbe dato l’impressione di darli alla parete. Le sue mani erano enormi! Osservai bene tutto il suo corpo perché, essendo così grossa, sospettavo potesse avere altre braccia nascoste da qualche parte. Dopo attento esame esclusi questa possibilità, anche se quelle che aveva facevano per sei. Cominciò ancora a parlare.
Allora tu sei un duro, di quelli che non rispondono. So io come fare con te! Conto fino a dieci, se ancora non avrai aperto bocca saranno guai! Uno, due…”
Speravo arrivasse oltre il dieci, almeno avrei imparato altri numeri, ma sentivo la paura crescere. Ad ogni istante che passava sentivo l’angoscia salire. Al sette ebbi i fremiti anche nei capelli ed al nove le ginocchia mi abbandonarono lasciandomi cadere a terra.
Non facciamo i damerini, tirati su bel bambino.”
Mi prese per il bavero della maglietta, che si allungò a dismisura, alzandomi. Avevo la sua faccia ad un millimetro dalla mia, vedevo le tonsille di quella donna vestita di grigio muoversi ad ogni parola scandita. Erano arrossate come la sua faccia!
Se tu sei Davide io sono Golia, e questa volta non mi colpirai con la tua fionda!”
Sicuramente mi aveva scambiato con un altro, io non sapevo nemmeno cosa fosse una fionda! Chissà se Golia era il suo vero nome. Ebbi paura che mi mordesse, invece mi trascinò in camera chiudendomi dentro. Ma prima di uscire sputò un’altra minaccia.
Presto tornerò e voglio sentire la tua voce, altrimenti sarà una dura e lenta agonia la tua!”
Dovevo assolutamente imparare a scandire le parole, l’avevo vista uscire a fatica dalla porta! Quell’essere infernale poteva veramente distruggermi. Cominciai le prove ma non sapevo da dove iniziare. Conoscevo “pappa, cacca, mamma, tutto”, ma non ero convinto che bastassero a calmare la bestia. Imparai la parola “gelato”, poi “bocca”, continuai a provare tutta la notte. Avevo fame e niente da mangiare. Mi sfogavo con l’unica frase che riuscivo a pronunciare, “mamma tutta cacca”, continuavo a ripeterla per sfogare almeno un po’ della mia rabbia. E’ bella la libertà se non hai freddo! Dalla finestra giunse la prima luce, dovevo insistere. Sicuramente presto sarebbe arrivata e io sarei stato nei guai. All’improvviso la porta si spalancò facendo spazio all’energumeno; aveva un vassoio con latte e biscotti.
Allora, sua signoria si degna di parlare con la servitù questa mattina?”
Mamma dice bocca mangia tutto gelato”
Ero riuscito a parlare, ma cosa avevo detto? Non capivo perché quel gigante fosse nervoso.
Tua madre ti darà il gelato la mattina, ma qui mangi quello che c’è. Se ti sta bene è così, altrimenti digiuni!”
Gli occhi s’erano allargati e le palle sembravano dovessero uscire da un momento all’altro. Aveva appoggiato il vassoio sul comodino in modo talmente brusco che parte del latte era straripato. Stava continuando a parlare con la sua vociona da tenore quando uscì lasciandomi solo. Mi tuffai sulla prima colazione mangiando e bevendo come un assatanato. Cosa voleva dire quella parola? Sapevo il significato di alcune, delle altre non mi era mai importato nulla. Però se avessi voluto dialogare dovevo sapere cosa dire. Non potevo farneticare. Pensai a come farmi capire dalla cicciona. Mi sforzai fino a quando feci una piccola frase che mi sembrava buona. Decisi di usarla alla prima occasione. Mi alzai provando ad aprire la porta che si spalancò. L’elefantessa era lì, seduta a due metri da me, le andai al fianco cercando di non tremare.
Mia bocca non dice parole”
Cosa stai blaterando ominide! Hai passato i dieci anni, non sei mica in fasce!”
Aveva capito il significato, dovevo insistere.
Mia bocca non dice parole”
Se ti vuoi prendere gioco di me caschi male. Ti pentirai d’avermi preso per i fondelli piccolo moscerino sporco e lercio!”
Mia bocca non dice parole”
E quelle che stai pronunciando da dove vengono? Chi sta parlando con me sottospecie di cacchina con le braccia?”
Cacca, mamma, pappa, tutto, gelato, mia bocca non dice parole”
Se insisti ti frantumerò in diecimila piccoli pezzettini e ti metterò nel brodo dandoti in pasto agli altri bambini! Ti prenderò per la testa e per i piedi strizzandoti fino a quanto non resterà solo la tua pelle pidocchiosa!”
Non ce la facevo più, cercai di non piangere ma le lacrime uscivano da sole. Non sapevo nemmeno cosa stessi facendo, non mi era mai capitato prima. Era il mio primo pianto. La dinosaura mi prese portandomi in un’altra stanza. C’era una donnina esile e smunta seduta dietro ad una vecchia scrivania.
Suor Corilde, questo piccolo essere crede di potersi prendere gioco di me!”
Cosa ha mai fatto Suor Abbondanza, mi pare che pianga... perché?”
Dice che non sa parlare. Eppure dalla sua bocca escono delle parole!”
Davvero piccino non sai parlare? Cos’è questa?”
Mise il dito su una foto, come la potevo chiamare? Non ne conoscevo il nome.
Mia bocca non dice parole”
Se davvero non sei capace di parlare t’insegneremo noi, l’importante è che tu capisca il significato dei discorsi. Lo capisci?”
Cominciai a mandare in su ed in giù la testa, non vedevo l’ora d’imparare il significato delle frasi. Di parlare tramite loro.
Bene. Suor Abbondanza si faccia onore ed insegni al nostro piccolo ospite tutto quello che sa, tranne quelle parole strane che a volte usa. Auguri a tutti e due.”
La montagna umana stava smoccolando mentre mi trascinava in una specie d’aula. Alle pareti avevano attaccato dei cartoncini dove erano disegni e lettere.
Siedi, cominciamo dall’asilo. Leggi cosa c’è scritto sul quadretto bianco.”
Non sapevo nemmeno cosa fosse il bianco. Mi guardavo attorno spaesato mentre leifumava come un vulcano prossimo all’esplosione.
Dove guardi? E’ questo! Dimmi cosa c’è!”
Era sicuramente un animale, ma quale? Non ne avevo la più pallida idea.
A. A come ape. Riconosci l’ape?!”
A come ape. Ape. Ape.”
Il vulcano calmò i fumi. Forse aveva capito che dicevo seriamente, che non sapevo davvero leggere.
B. B come bue. Questo è il bue.”
B come bue. Questo è il bue.”
C. C come cavallo. Questo è il cavallo.”
C come cavallo. Questo e il cavallo.”
Andammo avanti tutto il giorno ed a sera mi sentii più colto, più uguale agli altri. Suor Abbondanza mi aveva regalato una matita e qualche foglio. Prima di dormire ripassai la lezione e provai a scrivere. Avevo tanta voglia di crescere ma anche tanto sonno, e gli occhi si chiusero. La mattina, dopo colazione, mi precipitai all’aula; la mia insegnante era già al suo posto. Cominciai ad unire le parole. L’ape incontra il bue, entrambi vanno a cavallo e giocano coi dadi insieme alla farfalla. Era plausibile? D’altronde anche gli animali avevano una vita sociale e di relazioni come gli uomini, avevo visto il film e lo sapevo. Quante cose dovevano ancora entrare nella mia testa. Pensavo di essere grande ed invece ero il più piccolo dei piccoli. Mi impegnai tantissimo, qualche mese ancora e sarei stato istruito. A dodici anni credevo d’essere pronto per riaffrontare il mondo. Sapevo parlare e far di conto e conoscevo anche le tabelline. Cominciai a pensare a come scappare dal convento, perché mi avevano spiegato che lo era davvero. A sera uscivo di nascosto e giravo il giardino cercando un punto che potesse portarmi all’esterno. Purtroppo non ve n’erano. Dopo diverse ricognizioni cominciai ad aggregarmi agli altri bambini. Giocavano con una palla. Sapevo cos’era ma non mi spiegavo perché la prendessero a calci. Cosa aveva fatto di così cattivo per essere trattata a quel modo? Mi dissero che era un gioco, che i più bravi sarebbero andati a giocare nelle squadre migliori, che avrebbero guadagnato tanti soldi. Fu in quell'esatto secondo che mi ricordai dei miei. Dov’erano finiti? Corsi in camera cercando in ogni cassetto, nell’armadio. Niente. Quando uscii vidi Suor Abbondanza. Ormai ero in confidenza e quindi decisi di parlarle.
Abby, sai dove sono i soldi che avevo quando mi hanno portato qui?”
Sicuramente li ha Suor Corilde. Te li farà fruttare e, quando a diciotto anni uscirai da qui, te li ridarà.”
Io non voglio la frutta ma i soldi.”
Fruttare in questo caso vuol dire aumentare, te ne darà di più di quelli che hai ora.”
Perché devo aspettare di avere diciotto anni per uscire?”
Per la legge italiana è a quell’età che si diventa maggiorenni.”
Cosa vuol dire?”
Che sarai libero di fare ciò che vuoi tranne comportarti male. Quindi potrai cercarti un lavoro, una casa ed una brava donna che ti sposi.”
In che senso? Tu sei sposata?”
Certamente. Mio marito è Gesù Cristo. Ma ognuno è libero di avere le proprie idee, non tutte le donne diventano suore.”
Sapevo chi era l’uomo che diceva Abby, mi avevano insegnato a pregarlo e a rispettarlo. Lui e suo Padre avevano costruito la terra e il cielo. Ho sempre pensato fossero persone speciali, non è da tutti avere dei superpoteri come i loro. Inoltre avevano avuto un idea veramente Divina, chi avrebbe mai pensato di realizzare un’opera così grandiosa e Colossale? In sette giorni fra l’altro. Io avevo impiegato lo stesso tempo, il Natale precedente, per fare il presepe! Però non capivo perché si fosse sposato con una donna così cicciona, ce n’erano di migliori al mondo. Ritornai dai miei nuovi amici. Mentre uno contava fino a cento gli altri si nascondevano. Anche io ero capace di contare. Provai ad imparare a nascondermi ma non c’era verso, tutte le volte mi trovavano. Allora mi appartai cominciando una discussione con Gennaro, veniva da Napoli; mi spiegò che era una grande città e che lui si chiamava come il Santo più famoso del meridione. Parlava di suo padre dicendo che era uno strano soggetto molto violento, che aveva picchiato tutta la famiglia, compresi il cane e il gatto. Anch’io gli dissi che il mio mi aveva preso per il collo cercando di strozzarmi. Lui continuò citando i coltelli e le pistole presenti in casa sua. Io raccontai la storia del topo che mi aveva morso. Lui disse che i suoi usavano le forchette per ferirsi quando non avevano nulla da mangiare. Così gli raccontai del mio modo di procurarmi il cibo. Avevo finalmente dialogato con un altro. Mi ero anche fatto capire bene. Stavo crescendo ma non mi spiegavo perché sarei dovuto restare fino ai diciotto anni. Ritornammo tutti dentro, il pranzo era servito. Al mio fianco, in quell’enorme tavola, sedeva una ragazzina di nome Gloria. Aveva i capelli rossi e le lentiggini. Mi faceva sempre grandi sorrisi e quando gli altri se ne accorgevano cominciavano a ridere. Passarono pochi giorni e trovai sotto la porta della mia camera un bigliettino scritto da lei. Diceva che le piacevo, che ero un ragazzino interessante e che avrebbe voluto conoscermi meglio. Mi dava appuntamento per le dieci di quella sera in giardino. Aveva qualche mese più di me e mi metteva un po’ in soggezione, ma pensai che forse aveva trovato un modo per scappare. Ci trovammo sotto una pianta piena di rami. Mi prese la mano portandomi fino alla fine del parco, sotto il muro di recinzione, da quel punto nessuno ci poteva vedere. Mi disse di baciarla ed io rimasi di stucco, non avevo mai dato un bacio a nessuno. Allora mise le sue labbra sopra le mie. Non so dire se fosse una cosa bella oppure no, avevo la bocca umida ed a dire la verità mi faceva un po’ schifo. Da quella sera non si staccò più da me, dov’ero io era lei. Più che un’ossessione era un incubo. Ogni tanto mi diceva “ti amo”, ed io non capivo cosa intendesse dire. Cercai l’aiuto di Abby che mi spiegò il significato di quelle parole. Quando Gloria mi venne accanto e mi ripeté per l'ennesima volta “ti amo” dissi: “Io no”. Mi sarei aspettato che si arrabbiasse, invece tranquillamente riprese dicendo che col tempo l’avrei amata, che eravamo fatti l’uno per l’altra e cose di questo genere. Gli altri ci guardavano e ridevano, io dovevo fare qualcosa. Erano anni ormai che mi trovavo in quel convento! Non avevo tenuto il conto della mia età ma Gloria mi disse che stava per arrivare il giorno del mio quindicesimo compleanno, che per festeggiare mi avrebbe preparato una torta al cioccolato. Mi piaceva quella crema che somigliava alla cacca ma con un sapore decisamente migliore. Anche se a dire il vero la cacca non l'avevo mai assaggiata. Mi basavo, per le mie conclusioni, solo sull’odore molto diverso da quello della cioccolata. Mentre ero immerso in questi pensieri lei mi strinse forte a sé dicendomi.
Lo sai che è afrodisiaca?”
Non sapevo il significato di quella parola, quindi le chiesi cosa volesse dire.
Che ti fa aumentare le voglie a livello sessuale.”
Ecco altri vocaboli che mi risultavano strani. Chiesi un’ulteriore spiegazione.
Ma amore, non senti qualcosa di diverso in te quando mi stai vicino?”
Così dicendo mise la sua mano sul cavallo dei miei pantaloni toccandomi quello che io credevo essere una sorta di malattia. Ora capivo perché quello strano coso che mi portavo appresso cresceva o calava in base alle situazioni in cui mi trovavo! Però non sapevo se l’avevo solo io o anche gli altri. Gloria mi chiese di raggiungerla quella notte, che ci avrebbe pensato lei a farmi capire. Ero titubante, non sapevo se andare al parco fosse davvero la cosa giusta. Poi mi decisi e scesi le scale. Lei come il solito era sotto la pianta. Mi prese la mano e come sempre mi trascinò in fondo. Appena arrivammo si tolse il vestito e le mutandine. Restai di sasso, era completamente diversa da me! Inoltre aveva due gonfiori sul petto che mi preoccupavano. Fu lei a farmi la prima lezione di anatomia. A quel punto volle che mi spogliassi. Avevo una certa vergogna, quella specie di protuberanza era cresciuta, ma per non essere da meno l’accontentai. Fu in quel modo che scoprii il sesso. Devo dire che non era male, che da quella notte sono sceso sempre più volentieri al parco. Mi sentivo grande. C’era solo un problema, dopo le prime volte cominciò ad urlare. Diceva che quegli strilli le uscivano involontariamente perché provava piacere. Dovetti ingegnarmi e chiuderle la bocca con la mia. Ad essere sincero neanche questo mi dispiaceva più. Ma una notte, all’improvviso e senza far rumore, arrivò Suor Abbondanza. Mi pareva impossibile che la sua stazza potesse librarsi cosi leggera e silenziosa, eppure mentre eravamo sessualmente impegnati ci giunse una voce.
Brutti serpenti velenosi! Queste cose non si fanno nella casa del Signore! Volete giocare a fare le persone adulte e mature? Venite con me, vi faccio vedere io come si trattano due maiali come voi!”
La sua forza superava ogni aspettativa. Ci prese per i capelli trascinandoci nei sotterranei e rinchiudendoci in due celle dove tutto era in pietra, anche il letto. La sentì urlare contro Gloria.
Diecimila Ave Maria e diecimila Pater Nostrum! Di seguito e senza mai fermarti!”
La sentii arrivare davanti alla mia porta. Sperai che passasse andando oltre invece i suoi strilli entravano dentro la stanza e, rimbalzando da parete a parete, mi colpivano sferzandomi violentemente.
Tu, figlio del Demonio! Resterai chiuso fino a quando non sbollirai gli spiriti del male che aleggiano in te! Ventimila Ave Maria e Ventimila Pater Nostrum! Senza fermarti!”
Non credevo di avere fatto una cosa tanto grave, era una specie di gioco. Eravamo abbastanza grandi per farlo altrimenti non ci saremmo riusciti. Cominciai le preghiere, quarantamila non erano poche. Ogni volta che mi fermavo le urla della suora mi entravano nel cervello. Rimasi un mese chiuso a pane acqua e preghiere. Quando uscii Gloria era sparita. Gli altri ragazzi dissero che l’avevano trasferita. A me mancava veramente molto. Andai da Suor Corilde chiedendole dove fosse stata mandata.
Tu eri innamorato? Sei veramente certo oppure ti piaceva solo fare sesso? Ti manca lei o il suo corpo?”
Non lo so per certo, però ne sento la mancanza.”
Fra tre anni uscirai e se vorrai ti darò il suo indirizzo. E’ tornata a casa dalla madre, il tribunale gliel’ha riaffidata.”
Quando uscii cominciai a guardarmi attorno. C’erano altre ragazzine che mi guardavano come fossi stato il più grande esperto di sessuologia. La voce s’era sparsa. Pensai che in fondo una femmina valeva l’altra. Ero curioso di sapere se i loro corpi erano tutti somiglianti, purtroppo per me Abby non mi mollava un secondo. Di notte mi chiudeva a chiave e di giorno era difficoltoso anche andar in bagno. A volte la trovavo all’ingresso dei gabinetti che mi guardava alzando un dito in segno di monito. Dovetti rigare dritto per forza. Fu allora che cominciai a dormire di giorno fingendo d’essere desto. Dormivo costantemente, volevo essere riposato per il momento della mia liberazione. Mi assopivo con gli occhi aperti e sorridevo perché volevo che tutti mi credessero sveglio... e ci credevano. Quando arrivai ai diciotto anni Suor Corilde mi mandò a chiamare.
Davide, ora sei maggiorenne e da qui comincia la tua vita. Questi sono i tuoi documenti e questi i soldi che avevi il giorno che sei entrato. Non deludermi. Ho cercato per te un lavoro, ti ho scritto l’indirizzo nel foglio che troverai fra la carta d’identità, in questo c’è il nome di un parroco che affitta stanze. Se sarai capace di adattarti diventerai un vero uomo, dammi un bacio e vienici a trovare qualche volta.
Io, che avevo fatto quelle smancerie solo con Gloria, misi le mie labbra sulle sue spingendo con la lingua. Mi dette un ceffone che, ero sicuro, mi avrebbe lasciato il segno per una settimana. Questo mi fece ricordare la mia ragazza.
Aveva detto che mi avrebbe dato l’indirizzo, ricorda?”
E’ vero, ed anche se hai provato a limonarmi non covo vendetta e mantengo la promessa.”
Forse non la covava perché già l’aveva ottenuta, visto il bruciore sul mio viso. La faccia era infiammata come se vi fosse stato scaricato sopra un camion di catrame liquido. Non sapevo se quello che avevo pensato si confacesse alla situazione, ma era un pensiero spontaneo. Uscii dalla porta principale e cercai la strada che mi avrebbe portato dal mio primo amore. Non vedevo l’ora d’incontrarla. Quando fui davanti alla sua porta suonai. Venne ad aprirmi una signora coperta, si fa per dire, da una vestaglia trasparente. Mi chiese chi desiderassi e come pronunciai il nome Gloria mi disse: “Trecentomila”. Rimasi spiazzato e deluso. Guardai le scale e la vidi scendere. Mi salutò con un gran sorriso ma non ho mai creduto m’avesse veramente riconosciuto. Lasciai perdere le mie voglie ed andai dal parroco per la stanza. Mi chiese quattrocentomila lire al mese; nicchiai, non sapevo ancora se avessi mai lavorato. Inoltre quella stanza era priva di bagno ed aveva un letto troppo piccolo. Fra l’altro avrei vissuto a pochi metri da un uomo di chiesa. Non mi andava di dire altre quarantamila preghiere la prima volta che avessi portato in casa una ragazza! Quindi lo lasciai precipitandomi all’indirizzo della fabbrica dove mi avrebbero di certo assunto. Era una ditta di spurghi. Pulivano i cessi ed i pozzetti dagli escrementi, gli operai somigliavano incredibilmente alla materia che maneggiavano abitualmente. Mi ricordai le mie prime parole, quindi dissi “cacca” e me ne andai. Non era il massimo come impiego. Decisi di cercarlo da solo. Passai tutta la zona industriale e mi fermai nelle ditte che più mi si adattavano. Volevo un lavoro pulito e remunerativo. Purtroppo tutti dissero che quel tipo di attività l’avevano finita anni prima, che al momento avevano rimasto solo incarichi sporchi e sottopagati. Tornai in strada, mentre camminavo pensavo a cosa ero capace di fare. In effetti non avevo mai fatto nulla in vita mia, tranne che dormire. Girai trovando una piazza ed una panchina dove sedermi. Mi guardai attorno. La gente affollava quel luogo pieno di fontane e rideva osservando gli acrobati ed i saltimbanchi. Avrei potuto mettere un fazzoletto a terra e stendermi. Chissà se mai l’avessi trovato pieno di monetine al risveglio? Però gli altri per farsi dare qualche soldo qualcosa facevano, non avrei avuto successo dormendo. Fu allora che mi venne l’idea. Ero solo capace di non fare niente, di dormire, ed il mio niente poteva farmi guadagnare. Corsi in un negozio ed acquistai il necessario per il mio primo lavoro. Tornai alla piazza e cominciai la preparazione. Misi a terra una coperta e presi il vestito ed il fondotinta. In quindici minuti ero perfetto. Preparai un berretto capiente e mi raggomitolai sul panno steso davanti alla fontana cominciando a pensare alla mia vita. A quando avevo un anno ed i miei genitori andavano d’amore e d’accordo. Si capiva da come il letto cigolasse la notte che andavano d'amore e d'accordo! Magari durante il giorno si rompevano dei piatti in testa e si ritrovavano spesso al pronto soccorso, ma quando arrivava il momento di dormire nessuno dei due chiudeva gli occhi! Mia madre era bellissima. Ogni due giorni passava dal parrucchiere ed ogni due giorni andava al salone di bellezza. Io non capivo perché quando mio padre era al lavoro la casa fosse un continuo andirivieni di uomini. Comunque un giorno lui mi prese portandomi in salotto. Io non sapevo cosa volesse dire prendere le botte. Così quando mise le mani sul mio collo, cercando di strozzarmi, non capii subito le sue intenzioni. Abituato ai giochi credevo che ne avesse inventato uno nuovo, diverso. All’inizio sorrisi cercando di nascondere l’imbarazzo che mi pervadeva…

Davide. Davide! Dai che è ora di andare. Non c’è più nessuno, Piazza Navona è vuota.”
Porca miseria che dormita mi sono fatto.”
Hai sempre il tuo metodo? Pensi ancora alla tua vita?”
Faccio di più, me la racconto; sono dieci anni che ogni giorno rivivo il mio passato. Anche perché da quando sono qui non posso dire di avere vissuto. Tutto passa senza lasciare traccia o ricordi.”
Per forza, cambi maschera ma sotto quell’enorme sorriso dormi. La gente si chiede come fai a restare così immobile. Tanti bambini ti mettono le mani davanti agli occhi ma tu impassibile non ti muovi, sei incredibile. Hai tu le chiavi di casa?”
Credo di sì, cosa c’è da mangiare?”
Non ricordo cosa sia rimasto in frigo, ma abbiamo tempo per prepararci qualcosa.”
Non mettiamocene molto, sono tanto stanco ed ho troppo sonno! Tu non sai quanto sfinisce stare fermi a non far niente, quando è notte hai solo voglia di dormire.
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