mercoledì 3 novembre 2010

Vuoti di memoria

 Il suono del campanello rimbombava fra le stanze fredde della casa; lui, sdraiato sul letto e coperto solo di vestiti sporchi, fissava il vuoto. Il trillio riprese con più vigore. Non avrebbe di certo aperto. Richiuse gli occhi e liberò l'immaginazione. Seguendo il dito dalla forma adunca, premuto sul cerchietto di plastica, arrivò, passando dal braccio chiaramente reumatico, a scoprire la fattezza del volto e la smorfia di esagerata serietà dipinta sopra ad un enorme nasone ricurvo. Vide il ghigno attraversare orizzontalmente le guance ed adagiarsi sulla minuscola e sottile bocca arcuata verso il basso. Era sicuramente la fisionomia di uno di loro, se lo sentiva, anche se l’orario non sembrava quello giusto per la visita di un ufficiale giudiziario. Non voleva pignorassero altre cose. Neppure il divano, ormai vecchio logoro e stanco, che aspettava solo qualcuno disposto a caricarlo in un furgone ed a portarselo via. Prese una delle ultime tre sigarette, accendendola con un cerino che lasciò il suo odore acre nella stanza, e controllò le tasche. Aveva rimasto venti centesimi ed un biglietto del tram. Maledì tutti gli Dei di questo mondo andando oltre il lecito dell’educazione. Poi si pentì di quelle parole e chiese scusa, se davvero fossero esistiti avrebbe preferito farseli amici. Doveva bere. Prese l’ultimo bicchiere sano e cercò l’acqua nel rubinetto. Un rumore sinistro provenne dalle tubature vuote. Accidenti a quelle maledette bollette! Sentiva sete, tanta sete. Chissà perché quando una cosa manca la mente fa in modo che il corpo ne abbia voglia. Decise di tornare steso; passò dal corridoio e trasalì sentendo bussare con violenza. Chiunque fosse il suonatore misterioso non s’era rassegnato e, salendo al secondo piano di quel vecchio condominio, sperava forse di riuscire ad entrare nell’appartamento. S’avvicinò cautamente allo spioncino, dietro la porta un uomo di circa cinquant’anni. Il volto di pietra s’intonava con i capelli rasati a zero ed il naso, piegato leggermente sulla destra, faceva supporre che in gioventù avesse frequentato palestre e praticato l’arte del pugilato. Non l’aveva mai visto e si chiedeva chi fosse, cosa mai volesse da lui. Era sicuramente venuto a riscuotere vecchi debiti, figurarsi se non cercava soldi! Non ricordava neanche più a chi dovesse denaro. Chissà quanto voleva. Forse quattromila, cinquemila, o persino seimila euro! Ma per quale motivo doveva pagare tanti quattrini? Avrebbe potuto dargli i venti centesimi e dirgli di tornare più avanti per il resto. Quel pensiero lo fece sorridere anche se non era né il caso né il momento per farlo. Lo lasciò andando al bagno. Aveva un bisogno urgente ma non sapeva come fare a pulire. Aprì il rubinetto sperando in un miracolo. Ancora quel rumore sinistro. Doveva scendere ed entrare in un bar. Si guardò allo specchio accorgendosi di non avere la faccia migliore. I capelli schiacciati gli arrotondavano il viso e gli occhi incrostati volevano essere almeno bagnati. La barba aveva già lambito gli zigomi e la lametta che stava provando ad usare senza l'aiuto dell'acqua non tagliava. La mise in tasca e, dirigendosi verso la porta, cercò di capire se l’uomo fosse ancora presente. Nessuno dall’altro lato. Raccolse il pacco con le due sigarette, prese i fiammiferi, le chiavi, ed uscì. Guardò dalla tromba delle scale per verificare che non vi fosse nessuno, si rassicurò e scese fino all’androne. Aspettò un attimo e, prima di portarsi all’esterno, aprì la cassetta della posta trovandovi diversi avvisi, ivi compreso quello di una ditta sconosciuta che forse era rappresentata dall’omone di poco prima. Uno lo preoccupò più degli altri. L’Enel voleva urgentemente centoventicinque euro, in caso contrario avrebbe staccato la fornitura di corrente alle nove dell’indomani. Di bene in meglio!

L’aria di quel Dicembre era gelida e lui non s’era coperto abbastanza. D'altronde con cosa si sarebbe potuto coprire? Cercò un bar notando, purtroppo, che quello posizionato all’angolo era chiuso. Si guardò attorno sperando di avere un’idea; vide il tram fermarsi, prese la corsa riuscendo a salire. Aveva in tasca il biglietto e, mentre tutti l’osservavano in modo strano, l’infilò nella macchinetta facendola suonare. Ora era un passeggero regolare. Si sedette nella parte posteriore mentre gli occhi dei presenti non si staccavano dalla sua figura. Lui mise i suoi fuori del finestrino cercando di allontanare la vergogna e le lacrime ormai scese sulle guance. Mancava poco a Natale. In quel pomeriggio grigio di foschia le vetrine illuminate e gli addobbi del Comune luccicavano a festa le strade. Si sentiva fuori luogo. Guardò le persone notando come fossero vestite bene. Le donne indossavano cappotti o pellicce, gli uomini avevano un portamento signorile all'interno dei loro abiti scuri. Perché il destino lo voleva ridotto così? Ripensava ai momenti lieti, alle festività. Ricordava ancora Aurora e Giacomo intenti ad addobbare l’albero, la risata felice di Dora che, stretta a lui sul divano, guardava i loro figli appendere palline e strisce colorate. Cos’era successo di tanto grave da ridurlo solo, senza famiglia e senza soldi? La memoria non l’aiutava. Pensava, ma non aveva niente da ricordare. Cosa doveva farsi tornare alla mente? Il lavoro? Quale lavoro? Dov’erano andati sua moglie ed i bambini? Perché non erano rimasti con lui? Dove stava andando quel tram? Ritornò presente quando al di là dei vetri comparve la sagoma dell’ospedale. Scese entrando dalla porta del pronto soccorso; la gente continuava a fissarlo come fosse stato un barbone. S’insinuò fra i corridoi alla ricerca di un bagno aperto. Prese la via che portava agli ambulatori, a quell’ora certamente deserti. Le piccole insegne illuminate ai lati di quello spazioso e lungo corridoio segnalavano due toilette. Provò ad aprire la prima, che però resistette alla sua spinta, poi fece dieci passi arrivando alla seconda, era socchiusa. Appena all’interno entrò nell'ultimo dei due vani sedendosi sulla tazza. Stava cercando di ricordare perché non aveva più una famiglia; si sentiva stanco e raffreddato ma in quello stanzino caldo il suo corpo stava già molto meglio. Un rumore all’esterno gli fece capire che qualcun altro aveva scelto quel bagno. Si lavava il viso ed aveva un respiro affannoso come se avesse corso o faticato. La maniglia della porta s’abbassò ma la chiusura resistette alla sollecitazione; lui, immobile, aveva congelato il respiro. Non voleva lo cacciassero via, doveva ancora lavarsi e radersi. Fortunatamente lo sentì entrare nello stanzino accanto. Ora tossiva e forse vomitava. Un rumore improvviso, come un tonfo, riempì quel piccolo locale. Si udivano rantoli di dolore. Cosa doveva fare? Restò immobile ancora qualche secondo poi si convinse ed allungò una mano per aprire. Il gesto s’interruppe quando dei rumorosi passi gli giunsero alle orecchie. Qualcuno stava entrando, sentì la chiave girare nella serratura. Chiunque fosse s’era chiuso dentro. Voleva almeno scaricare l’acqua. La puzza aveva riempito quel piccolo stanzino senza finestre. E con la luce spenta anche l’aspiratore non funzionava. Il malsano odore, che lui stesso aveva creato, senza alcun invito entrava copioso dalle narici. Appiattito al muro aspettava che accadesse qualcosa. Infatti dopo poco sentì una specie di urlo strozzato e dei singhiozzi. Sembrava il pianto sommesso di una donna. Il rumore della chiave ed i passi nel corridoio gli fecero pensare d’essere rimasto solo. Aspettò che tornasse il silenzio, fece scorrere l’acqua ed uscì trovandosi faccia a faccia con se stesso. Chissà se quello specchio rifletteva la verità? Non si riconosceva. Tolse la maglia ed i pantaloni cominciando un rapido lavaggio; il sapone liquido di quella toilette era profumatissimo e si diffuse nell’aria dandogli l’impressione del pulito. Non c’erano salviette e decise di asciugarsi con la carta igienica. Bagnò i capelli e li risistemò con le dita. Tolse la lametta dalla tasca e provò a tagliare quei peli cresciuti oltre il territorio di pertinenza. Ci stava riuscendo ma la pelle s’era arrossata ed aveva bisogno d’essere inumidita. Il rotolo, recuperato nel bagno da lui usato in precedenza, stava finendo, quindi aprì la porta dell’altro per prenderne uno nuovo. Stava per entrare ma si blocco! Un uomo di circa sessant’anni era steso a terra. Gli occhi sbarrati controllavano attentamente il soffitto. La testa su cui erano posizionati si trovava fra il water ed il muro, le gambe piegate sotto il corpo avevano una posizione innaturale, non si vedevano i piedi. Probabilmente era prima caduto sulle ginocchia e poi all’indietro. Il camice bianco faceva supporre si trattasse di un dottore, anche se la targhetta di riconoscimento non si trovava dove avrebbe dovuto essere. Qualche goccia di sangue, ormai coagulato, aveva sporcato la pelle sulla punta delle dita. Guardando bene, infatti, si vedevano alcuni piccoli tagli. Il portafoglio spuntava dal taschino sul petto, lo prese in mano aprendolo. Vi trovò venti carte da cinquecento euro e niente altro, neppure un documento. Guardò quei soldi indeciso su come comportarsi; pensò di prenderli in consegna e di non lasciarli in balia di eventuali ladri. Raccolse i pantaloni lasciati a terra, li scrollò infilandoseli e nascose il denaro al sicuro in una tasca. Prese la maglia ed il paletot finendo la vestizione. I capelli quasi asciutti gli davano un aspetto ribelle ma convincente; aprì il rubinetto bevendo come non aveva mai fatto. Quando sentì lo stomaco fargli male smise, si riguardò allo specchio e pulì il portafoglio dell’uomo con la carta rimasta. Risistemò tutto asciugando bene anche il lavello e buttando i residui nel water. Ora doveva solo uscire; avrebbe potuto chiudere a chiave, così nessuno si sarebbe accorto subito del morto, ma la coscienza non glielo permise. Spalancò la porta affinché fosse ben visibile il bagno aperto, uscì nel corridoio ed aprì al massimo anche l’altra. Ora era tranquillo, qualcuno di lì a poco lo avrebbe certamente notato.

Prese le scale arrivando al piano terra. Avviandosi verso l’esterno sentì l’aria tagliente entrargli nelle ossa. Prese una decisione importante. Doveva comprare qualcosa di pesante da indossare. Un tram stava partendo con poche persone a bordo; salì velocemente ed infilò il biglietto dalla parte opposta a quella già utilizzata. La macchinetta suonò ed il conducente riprese la strada. Seduto in fondo a quel mezzo, che non sapeva dove andasse, ripensava ai rumori uditi pochi minuti prima. Aveva sentito l’acqua scorrere e l’uomo tossire, poi? Possibile che nient’altro fosse accaduto? Com’era morto? Nessun rumore di lotta o colluttazioni. Ricordava solo il respiro affannato e gli sforzi di vomito. Ma il water era pulito e non aveva sentito l’acqua scorrere. Era morto in modo naturale oppure l’avevano ucciso? Qualcuno spinse il pulsante di fermata ed il campanello suonò. Il tranviere rallentò fermandosi davanti ad un grande ipermercato. Ne approfittò per scendere velocemente ed entrare all’interno di quell’enorme negozio; abiti e cappotti si mostravano eleganti e belli dietro le vetrine. Le commesse, non considerando il suo modo di vestire, gli fecero provare di tutto. Uscì irriconoscibile. Aveva sistemato i panni vecchi in una sportina di plastica, doveva portarli a casa. Si fermò in tabaccheria per acquistare due pacchi di sigarette ed una stecca di biglietti per il tram; uscì e s’avviò all’esterno dove una rosticceria, posizionata all’entrata di quel centro, spandeva odori invitanti nell’aria. Comprò un pollo, delle patatine fritte, una bibita e due bottiglie d’acqua; infilò tutto in un’altra sporta allontanandosi. Dall’altro lato, in un negozio di scarpe, aveva adocchiato un paio di scarponcini che riteneva caldi e comodi. Li prese perché il costo non sembrava eccessivo. Ora era stracolmo. Non aveva più dita da infilare nei manici di sacchetti e sportine. Fortuna volle che il tram diretto al suo quartiere non tardasse. Le persone non facevano più caso a lui, ai suoi vestiti. Scese andando verso l’androne del condominio. Riuscì ad arrivare fino all’appartamento freddo che abitava. Accese la luce e mise in tavola l’ultimo piatto sano ed una forchetta. Doveva ricordarsi di pagare la bolletta appena fosse arrivato il nuovo giorno. Mangiò avidamente quella pietanza croccante, bevve la bibita ed usò l’acqua per lavarsi le mani. Incredibile come un uomo si senta meglio a stomaco pieno. Anche il gelo che aleggiava in quella stanza era sopportabile ora che aveva mangiato e bevuto. Mise il cappotto tornando in strada; aveva fatto bene a tenersi quei soldi non suoi? Il pensiero del dottore steso senza vita in quel bagno cominciò a serpeggiare nella sua mente. Chissà se l’avevano trovato? Stava camminando sui marciapiedi puliti della sua città andando verso il Centro Storico. Aveva tanto, forse troppo denaro in tasca. Tornò sui suoi passi rientrando in casa. Nascose novemila euro nell’armadio, insieme alla bolletta dell’Enel, tenendo per se i quattrocento in pezzi da cinquanta. Ora si sentiva più tranquillo. Riprese la passeggiata cercando di ricordare perché la sua famiglia l’avesse abbandonato. Aurora, Giacomo e Dora, chissà dov’erano finiti? Camminò fra la gente, tra le vie decorate a festa, sentendosi parte del mondo. Anche se niente l’attirava guardava la merce esposta nei negozi ancora aperti. Cercava un bar dove prendere un buon caffè, uno che non fosse stracolmo di clienti. Lo trovò accanto ad una bottega che vendeva di tutto, comprese delle confortevoli termocoperte. Decise d’acquistarne una, tanto più che il prezzo era modico. Si sentiva tranquillo, avrebbe pagato le bollette dell’acqua e del gas, facendo in modo che in quell’appartamento tornasse la normalità, ed avrebbe ripreso il lavoro. Ma cosa sapeva fare? Non c’erano ricordi nella sua mente. Come mai aveva memoria del presente e non del passato? Sarebbe andato anche da un dottore, sentiva il bisogno di riappropriarsi della sua vita. Chissà com’era morto quell’uomo in camice bianco? Perché la donna che piangeva non aveva chiesto aiuto? Voleva scoprire le cause di quel decesso, glielo doveva. Non avesse avuto un prestito dal cadavere sarebbe rimasto chiuso in casa a fumare l’ultima sigaretta senza prospettive.

Fermò un tram salendovi, voleva tornare all’ospedale. Osservò il suo volto riflesso nel grande specchio accanto al conducente, aveva l’espressione di chi sapeva cosa fare nel prossimo futuro. Mentre le luci gli sfilavano accanto pensava a come risolvere il caso del camice bianco. La prima cosa da scoprire era l’identità del morto. Arrivato in quell’edificio stracolmo di malati si diresse subito agli ambulatori. Tutto si presentava come in precedenza, anche la porta aperta esattamente come lui l’aveva lasciata. Il corpo, steso ancora nella medesima posizione, era ormai freddo. Cercò l’ufficio informazioni. Non trovando nessuno dietro lo sportello s’avviò verso il pronto soccorso dove sicuramente era di guardia una pattuglia della Polizia. Tutto sbagliato! Rifece il percorso inverso ritrovandosi nuovamente al bagno; cercando meglio vide un tesserino sanitario sporgere da un taschino, apparteneva al Professor Flamigni, Primario del reparto tossicologico. Guardò il portafogli. Il pensarlo vuoto gli mise tristezza e così, prima di andare nel padiglione che quel dottore dirigeva, restituì duecento euro del precedente prestito.
Arrivare al reparto tossicologico non fu difficile. Era a pochi metri dalla fine di quel corridoio e gli bastò tenere sempre la destra.
La porta del reparto chiusa a chiave non lo scoraggiò. Suonò il campanello, che emise un rumore tenue e quasi impercettibile, ed un’infermiera con grossi zoccoli ai piedi venne ad aprire. Chissà perché il rumore di quei passi suonava familiare. Chiese notizie del professore e come risposta ottenne dei vaghi “non so”. Decise di giocare d’azzardo presentandosi come ispettore di Polizia. La donna trasalì. Lui le mise in faccia la realtà ed a quel punto, sentendosi scoperta, ammise d’averlo visto morto nel bagno degli ambulatori. Non aveva parlato prima perché sospettava che il marito sapesse della loro relazione e l’avesse ucciso. Cosa fare? Fece radunare tutte le persone presenti in reparto, voleva interrogarle. In quel momento si sentiva davvero un funzionario delle forze dell'ordine.
Le infermiere di turno erano quattro, oltre alla precedente, tutte donne. Sedute nella camera della caposala si guardavano a vicenda come a spiare eventuali movimenti o tic sospetti. Le fece accomodare in corridoio chiamandole una ad una. La prima, di nome Sara, aveva un’età forse troppo giovane per il Primario; disse che non s’era mai mossa dalla stanza numero sei perché un suo paziente s’era sentito male ed aveva dovuto seguirlo costantemente. Sapeva della relazione che Flamigni intratteneva da qualche mese con Francesca, come del resto lo sapevano tutte le altre. Non era né sposata ne fidanzata e viveva con i genitori che erano già arrivati all’età della pensione. Sembrava tranquilla e niente la turbava. Il camice, forse troppo grande, nascondeva un bel corpo con sinuosità invitanti. La tessera, aggrappata alla parte bassa del colletto, riportava la foto identica al viso sovrastante.
Fece accomodare la seconda. Era robusta, di un biondo innaturale, ed indossava occhiali con lenti spesse. Un’enorme fede giganteggiava nell’anulare della mano sinistra e, come per fargli capire che era impegnata, gliela mise sotto gli occhi. Si capiva che non voleva avere storie di nessun genere, che era sposata e felice di esserlo. Sapeva della relazione ma se ne fregava in quanto, disse, chi si fa i fatti suoi vive cent’anni. D’altronde il professore era separato e poteva disporre come meglio credeva della propria vita. Il viso riempiva tutta la foto del tesserino di riconoscimento ed il nome, Mara, si leggeva a fatica. Era stata impegnata nella preparazione delle cartelle cliniche di due pazienti dimessi qualche ora prima; aveva visto il Primario per cinque minuti in tutto il pomeriggio in quanto gli aveva portato dei risultati arrivati dal laboratorio analisi. Riuscì a farla uscire chiamandone un’altra.
Si presentò una ragazza di circa trent’anni spaventata dalla notizia della morte del dottore; non lo conosceva bene. Erano solo due mesi che lavorava in reparto ed incontrarlo la metteva ancora soggezione. Aveva uno, parole sue, con cui conviveva e non sentiva il bisogno d’avventure, specialmente con uomini troppo maturi. L’anello che portava al dito era fine ed aveva uno smeraldo incastonato; le unghie lunghe, dipinte di un rosso intenso, risaltavano le dita di quelle mani ben affusolate che però, al momento, si tormentavano a vicenda. Il cartellino, fissato con una piccola clips al taschino, mostrava un viso sorridente che ancora lui non aveva visto, ed il nome, Pamela. Una mascherina con doppi elastici gravitava fra collo e mento nascondendo parzialmente la pelle vellutata ed ancora abbronzata. Disse che s’era scontrata con il professore nel vero senso del termine. Stava uscendo con alcune preparazioni dal laboratorio mentre lui entrava. L’impatto era stato inevitabile e, visto che alcune fiale s’erano rotte, aveva passato il resto del pomeriggio a prepararne altre identiche.
Entrò la quarta, non era un'infermiera ma un'inserviente. Non aveva nulla a che fare con Flamigni, anzi lui non la considerava proprio. Era stanca perché il pomeriggio l’aveva trascorso a pulire da sola le otto camere del reparto. La sua collega di turno s’era sentita male qualche ora prima ed era tornata a casa. Qualcosa preso dalla macchina automatica del corridoio l'aveva fatta vomitare. Non ricordava fosse un the o una cioccolata calda. Il volto della donna, serioso, fissava il tavolino di lamiera verniciata senza mai alzare lo sguardo. Le chiese se avesse pulito lei dopo lo scontro fra il dottore e Pamela, ma non sapeva nemmeno dove fosse avvenuto. Quella piccola femmina, momentaneamente spettinata ed anche trasandata, aveva qualcosa di particolare ed attraente. La sua timidezza era come una calamita, attirava gli uomini.
Francesca non stava bene; aveva il volto cereo ed il pianto nascosto da un sottilissimo foglio di carta velina. Non superava i trentacinque anni ed i capelli lunghi e neri, annodati con spilloni dietro le spalle, lasciavano il viso, dolce e triste allo stesso tempo, ben visibile. Aveva passato il pomeriggio, fino alle quattro, in reparto, poi era andata agli ambulatori dove, nel secondo bagno, aveva appuntamento con il professore. Non credeva che le altre sapessero di quella relazione ma temeva che il marito la seguisse. S'era accorta che ultimamente si comportava in maniera insolita; a volte lo trovava stranamente in corsia, oppure lo vedeva all’uscita, come se temesse di essere cornificato. Per quel motivo lei e Flamigni non s’appartavano più nell’ufficio ma in quella toilette che di pomeriggio risultava praticamente inutilizzata. Era rimasta scossa dopo averlo trovato morto, ma non poteva dare lei l’allarme. Dovevano essere altri a scoprirlo. Al ritorno s’era chiusa nello spogliatoio per sfogare il dolore piangendo; ed anche in quel momento disse di stare male. Sentiva la coscienza sporca. In quei tre mesi di relazione non aveva mai pensato ad un futuro con il Primario, non era amore il loro... facevano solo sesso. Una valvola di sfogo per non morire di noia e solitudine. Il suono attutito di un cellulare arrivò dal corridoio e, dal vetro posto in un angolo di quella stanzetta, videro Pamela rispondere e poi andare ad aprire la porta del reparto. Un uomo di circa quarant’anni stava entrando. Sia lui che l'infermiera si guardarono attorno. Non vedendo nessuno si sfiorarono con le labbra e si sorrisero. Francesca ebbe un fremito improvviso e dalla bocca le uscirono anche alcune imprecazioni... era suo marito. Capì che non andava per controllare lei ma per incontrare l’altra. Parlarono pochi secondi, quasi a trovare un accordo su cosa fare dopo, poi il traditore riprese la via già fatta in precedenza. Pamela chiuse a chiave e ricontrollò il corridoio; convinta che nessuno avesse visto ritornò in laboratorio sistemandosi il camice. 
Stavano fissandosi gli occhi; le lacrime erano sparite dal volto di Francesca, ora si notava solo un’espressione rabbiosa. Chiese d’essere lasciata sola. Lui si fece accompagnare nell’ufficio del Primario e la lasciò andare.

Chiuso fra gli armadietti dei medicinali ed i referti pensava a ciò che quelle donne avevano detto. Prese un libro di medicina che parlava di veleni e capì come e cosa avesse ucciso il Primario. La bava alla bocca ed il vomito erano sintomi inequivocabili. Il cerchio marrone ancora impresso sulla scrivania confermava le sue ipotesi. All’improvviso l’assalì un atroce dubbio. Aprì leggermente la porta lasciando un minimo di spazio per osservare il corridoio esterno. Era convinto che presto Francesca sarebbe uscita per andare da Pamela. Mentre spiava cercava di ricostruire la giornata di quel reparto.
L’unico uomo presente, il capo di tutte loro, arriva ed entra in ufficio; l’amante lo raggiunge e lui le dice che non ne vuole più sapere di quella relazione. Lei esce schiumando rabbia e pensando a come fargliela pagare. Non lo vuole uccidere, ma vederlo star male sì! Prende una dose leggera di veleno non appena lui esce per le visite; come lo vede tornare prepara una tazza di cioccolata in cui versa quel liquido che dovrebbe punirlo. Ma lui ha uno scontro con Pamela e perde tempo. L’inserviente vede il bicchiere di cioccolata lasciato sul tavolino e beve; dopo poco si sente male e va a casa. Francesca non sa che fine abbia fatto la bevanda leggermente avvelenata. Si accorge che lui sta ancora bene e deve far finta di niente, ma non può fargliela passare liscia. Quindi ne prepara un’altra, con ancora più veleno, e questa volta la lascia sulla sua scrivania. Lui la beve e si sente male. Esce dal reparto, probabilmente per recarsi al pronto soccorso, passando dalla via più breve, gli ambulatori; ma arrivato al bagno la situazione peggiora. Entra e si lava la faccia, tossisce cercando di vomitare ma non tira l’acqua ed il vomito non è nel water, segno che il veleno è ancora nel suo corpo. Arriva lei che l’ha seguito. Perché si chiude a chiave? Vuole completare l’opera? Lo vede steso e forse gli inietta qualcosa sotto l’unghia. Poi piange; per rabbia o perché si rende conto di ciò che ha fatto? Torna in reparto e continua normalmente il suo turno. Quasi quattro ore senza dire niente a nessuno. Poteva essere questa la giusta ricostruzione?
Improvvisamente un rumore di zoccoli lo fece tornare alla realtà. Francesca, immobile davanti alla macchina del caffè, aveva preparato due bevande ed in una stava versando del liquido. Coi bicchieri in mano si avviò verso il laboratorio. Appena vi entrò lui uscì dall’ufficio portandosi a ridosso della porta, voleva ascoltare le parole. Pamela aveva la voce alterata. Chiedeva dove fossero i soldi, che fine avessero fatto. L’altra non sapeva rispondere, diceva d’aver sentito un rumore e di essere uscita dal bagno per paura che qualcuno la vedesse. Che era tornata dopo dieci minuti non trovando più la busta. Maledivano la Polizia. Nel corridoio s’erano radunate le altre donne; lui mise un dito sulla bocca, per farle stare in silenzio, e le fece avvicinare perché ascoltassero. La prima stava ancora chiedendo informazioni sui soldi. Non vi era risposta abbastanza convincente che la soddisfacesse. L’altra si giustificava dicendo di averlo trovato già morto. Il veleno che gli era entrato in corpo, dopo l’urto, aveva agito troppo velocemente. Il sacchetto non era nella tasca dei pantaloni e, quando aveva visto il portafoglio nel taschino, c’era stato il rumore. Poi passò al contrattacco chiedendo conto del bacio dato al marito. Ora stavano litigando. Le voci s’incrociavano e si capiva a fatica il significato delle loro frasi. Pamela disse d’aver capito perché i centomila euro erano spariti, era una vendetta la sua! L’avevano ideato insieme quel piano e dovevano dividere in parti uguali. Il denaro le serviva e non aveva intenzione di lasciarglielo, a costo di andare da quell’ispettore e dirgli tutto!
Francesca cercò di calmarla offrendole la cioccolata, poi disse che i soldi erano nel suo armadietto. La invitò a bere e a non preoccuparsi. Ancora poco, il poliziotto se ne sarebbe andato e loro avrebbero diviso. Lui aprì la porta avvicinandosi alle due complici. Prese i bicchieri chiedendo all’inserviente di metterli in un luogo sicuro. Senza parlare le fissò con l’aria greve di chi sa tutto. Le infermiere e l'inserviente, radunate a capannello attorno a loro, facevano da cornice a quella strana scena. Chiese chi avesse intenzione di parlare per prima, alludendo ad eventuali sconti di pena per chi avesse collaborato, e Pamela guardò le altre negli occhi ed esplose in un pianto. Diceva che tutte sapevano delle false generalità del Primario, che la laurea l’aveva comprata ed esercitava abusivamente. S’era fatto tanti soldi... perché non approfittarne? Disse che aveva portato il denaro ma prima di darglielo voleva delle garanzie; Francesca non poteva permettersi di parlare perché tutti sapevano che era la sua amante, per questo voleva che anche lei si compromettesse e guadagnasse quei soldi con una prestazione sessuale. Voleva la sicurezza che fossero i primi e gli ultimi che spendeva. Quando cercò di abbracciarla e baciarla si difese con il vassoio e fu in quel momento che le fiale dei veleni si ruppero. Erano diversi fra loro ed il professore tagliandosi avvertì subito i crampi, perciò decise d’andare al Pronto Soccorso. A quel punto intervenne Francesca. Disse d’averlo seguito fino al bagno, d’aver aspettato prima d’entrare e una volta all’interno, vedendolo steso senza vita, d’avergli sfilato la busta con i soldi. Poi, al ritorno, s’era chiusa nel suo ufficio a smaltire la tensione. Dichiarò che non lo voleva morto, che era stato un tragico errore. Non si sentiva soddisfatto da ciò che aveva sentito; le chiese di seguirlo fino al bidone della spazzatura e la fece frugare e togliere tutto quello che si trovava al suo interno. Oltre a guanti e garze sbucarono una siringa ed altre due fiale. L’inserviente commentava dicendo che ancora non era riuscita a pulire perché costretta a lavorare sola in quel pomeriggio. Mise tutto in alcuni sacchettini di plastica e riguardò fisso gli occhi di quella donna, erano chiusi. Aveva capito di non avere vie di fuga perché lui sapeva. Vedendo la siringa anche Pamela capì che le piccole ferite provocate dalle fiale rotte non l’avevano ucciso ma solo stordito, che  una puntura aveva finito l’opera da lei iniziata. Cominciò ad urlare e ad offenderla fino a quando anche Francesca esplose. Parlò della loro relazione, di come la trattasse e l’umiliasse. Disse di sapere che lui avrebbe voluto fare sesso con la sua complice e pure che lei era l’amante del marito. Dovevano morire tutti, anche il suo uomo. Aveva il veleno già pronto e solo da versare o iniettare!
Corse verso l’armadietto e, prendendo una siringa, gli si lanciò contro. Riuscì a bloccarla appena in tempo. Prese dei lacci emostatici, legò i polsi ad entrambe chiudendole a chiave nel ripostiglio. Era l’ora di chiamare la vera Polizia. Seduto sulla poltrona di Flamigni immaginava scene di sesso; quanti segreti nascosti al mondo in un piccolo reparto. Il professore che non era un vero Primario e neppure un vero dottore, l’amante tradita anche dal marito, l’altra che aveva un uomo con cui conviveva ed uno che la andava a trovare al reparto dove si trovava anche la moglie. Sarebbe stata una buona trama per un romanzo giallo. Prese il telefono e digitò 113; disse al poliziotto del morto nel bagno e dell’assassina legata in reparto. La voce nella cornetta voleva sapere il suo nome... non fu accontentata. Si avviò verso l'esterno chiedendo all’inserviente di raccontare tutto agli agenti. Appoggiò i sacchetti con le prove sul tavolino accanto alla macchina del caffè e le disse che aveva un impegno improrogabile e doveva andarsene. Si fidava di quella donna che aveva nella timidezza il suo maggior fascino.

Uscì passando dagli ambulatori. Di fronte ai bagni s’era già radunata tantissima gente. Chiese cosa fosse successo e gli venne risposto che un noto Primario, una persona rispettabilissima, era stata trovata morta e forse si trattava d’infarto. Erano ormai le dieci di sera, stava tornando a casa. Doveva assolutamente scrivere ciò che gli era accaduto prima di scordarsene. Si rendeva conto che la sua mente da qualche tempo faceva i capricci, ma ora ricordava tutto perfettamente. Dora ed i bambini erano morti nel rogo scaturito dal cortocircuito dell’albero di Natale... perché una fine così tragica? Accese una sigaretta; al contatto con l’aria di quel Dicembre il fumo era più denso del solito e si librava nell’aria senza disperdersi. Camminava senza fretta, sarebbe arrivato certamente in tempo. Doveva semplicemente entrare nell’ultima stanza di casa sua e sistemare le cose. Aprì la porta accendendo la luce; le rimanenze del pollo puzzavano perciò decise di gettarle nel cestino dei rifiuti. Prese l’acqua e prima di lavarsi la faccia ne bevve un sorso; doveva assolutamente spegnere quel fuoco. Si rese conto d’aver lasciato la termocoperta nel tram. Accidenti alla memoria, possibile che quando era impegnato nel suo lavoro non riuscisse a tenersi niente in mente? Ora ricordava cosa faceva per vivere... anzi, per sopravvivere. Aprì l’ultima porta dell’appartamento, lo accolse la sua usuale confusione. Accese il computer... non doveva assolutamente scordarsi di pagare la bolletta dell’Enel. Accidenti! Dove aveva nascosto i soldi? Forse nel cassetto del comò, o forse nel barattolo vuoto dello zucchero. Cercò di far mente locale. Erano in casa e di certo non sarebbero spariti, però doveva trovarli entro le nove. Grazie a quel finto dottore avrebbe sistemato la sua traballante situazione. Non si sentiva un ladro ed aveva la coscienza tranquilla, in fondo si era messo in pari scoprendo chi l’aveva ucciso! Si sedette quando nello schermo comparvero le icone da scegliere; pigiò sul mouse facendo apparire un racconto intitolato “Natale di fuoco”, il nome dell’autore era il suo. Ora ricordava tutto. Avrebbe modificato il finale, Dora ed i bimbi non dovevano morire. Cambiando il titolo tutto sarebbe andato a posto. Cominciò le correzioni ed appena finito aprì un file vuoto cominciando la cronaca di quella giornata. Dopo poco iniziò a lavorare di fantasia così che passò tutta la notte sulla tastiera.

Dalla finestra filtrava la luce del giorno e nell’angolo dello schermo l’orologio segnava le otto e cinquantanove. Ricordava di dover fare qualcosa di molto importante ed urgente prima delle nove, ma cosa? All’improvviso lo schermo si spense, contemporaneamente anche la lampada che pendeva dal soffitto. Accidenti, non si spiegava cosa stesse succedendo. Provò a schiacciare sull’interruttore... tutto restava ugualmente muto e spento. Cosa doveva fare prima delle nove? Troppe ne aveva nella mente da scrivere che altro non riusciva a fare. Come al solito, certamente, aveva dimenticato qualcosa... ma cosa?

venerdì 22 ottobre 2010

Un muto sorriso

Io non sapevo cosa volesse dire prendere le botte. Così quando quell’uomo mise le sue mani sul mio collo, cercando di strozzarmi, non capii subito le sue intenzioni. Abituato ai giochi pensai ne avesse inventato uno nuovo, diverso. All’inizio sorrisi cercando di nascondere l’imbarazzo che mi pervadeva, poi riuscii a liberarmi e gli chiesi d’insegnarmi a giocare. Mia mamma era lì e ci guardava. Non aveva alzato neppure un dito per difendermi e trapelava dal suo sguardo una strana voglia. Se fosse stata contenta di vedermi morto? Sicuramente mi sbagliavo, era colei la quale mi aveva concepito. Lui non aveva mai alzato neanche la voce con me; quindi col suo modo naturale e spontaneo, cercando di non ferirmi ed usando un tono che somigliava molto alla voce del pupazzo di Dario Argento in “Profondo rosso”, disse:
Devi cercare di capirmi. Tua madre mi ha confessato che un giorno, otto mesi prima che nascessi tu, ha avuto un incontro casuale con chi io, fino ieri, ho creduto essere il mio migliore amico. Dopo due ore in cui i loro corpi espressero la ferrea intenzione di non separarsi, decisero di non continuare la frequentazione saltuaria che avevano appena iniziato. Io a quel tempo lavoravo all’estero e non sarebbe stato facile farmi intendere che nel futuro prossimo venturo sarebbe venuto al mondo un figlio mio. Quindi, con l’astuzia che l’ha sempre contraddistinta, è partita in aereo venendomi a trovare e facendomi credere che io le mancassi. Abbiamo avuto un fugace incontro in una saletta nascosta, in un bagno per intenderci, dell’aeroporto, e qualche giorno dopo mi telefonò per dirmi che tu eri nella sua pancia. Quando sei venuto al mondo mi meravigliai del mese di anticipo che ti eri preso, ma mi convinse che tutto era avvenuto in buona fede. Capita che un bimbo nasca prima del dovuto. Non capivo nulla di parti e nascituri. Perciò, nonostante tu pesassi quasi cinque chili, non ho esternato perplessità accettandoti come mio. Ma ora, dopo aver parlato con il ginecologo, dopo aver trovato una quantità enorme di preservativi in casa ed avere visto alcune registrazioni filmate che la ritraggono in pose degne della migliore tradizione suina, mi sono reso conto che sono stato vittima di un raggiro e che tua madre è un incrocio tra diverse razze animali, quali vacche e gatte in calore. E’ per questo che non voglio tu rimanga in vita, mi ricorderesti gli incesti avvenuti dando alla mia mente un’incessante e continua quantità di virus stressanti che potrebbero portarmi a malattie che non voglio nemmeno pronunciare.”
Ero un bimbo di appena due anni quando sentii questo discorso e nove decimi delle sue parole non le avevo capite. Ma se non erravo, e non credevo di errare, volevano dire che mia madre l’aveva cornificato ed io non ero suo figlio. Da quell'attimo la mia mente cominciò a far spazio ai ricordi recenti. Pensai al costante ed incessante andirivieni di uomini in casa e non potevo negare che al mio ex padre potessero dare fastidio quelle frequentazioni mondane di chiara matrice erotica. Immaginai che sarebbe stato molto difficile vivere con una persona del genere, specialmente per il modo di esprimersi che aveva, e gli feci capire, usando un linguaggio appropriato alla mia giovane età e gesti manuali inequivocabili, che sarebbe stato meglio, piuttosto di finire in galera, se ne fosse andato abbandonandoci al nostro destino. Ho riassunto il significato per non scandalizzarvi con il lungo turpiloquio che la mia bocca, ed il mio linguaggio ancora infantile, aveva messo in essere, in quel periodo ero molto loquace. Lui se ne fece una ragione e partì. Mia madre ci rimase male perché le venivano a mancare diversi sostegni economici. Fu in quel momento che recepii appieno la situazione, il suo svago non era di tipo lavorativo e quindi non aveva ritorni materiali da quelle assidue frequentazioni che riteneva un hobby come, ad esempio, andare a pesca di pesci. All’inizio cercò di darmi tutte le attenzioni di cui avevo bisogno, poi con il tempo s’indurì e riprese a frequentare la parrucchiera ed i saloni di bellezza. Quando mi lamentavo perché stare in casa senza mangiare, sia a mezzogiorno che a sera, non era il massimo che un bambino poteva avere dalla vita, mi rimproverava dicendomi che la colpa di tutto ciò che le era capitato doveva essere addossata solo ed esclusivamente a me! 
Lei era bellissima. Almeno durante la giornata visto che l’Enel ci aveva tolto i contatori ed era difficile vederla nel buio della notte! Capivo del suo ritorno a casa dalle scarpate che dava al comò e dai successivi rumori e mugugni che uscivano a getto continuo dalla sua bocca. Se osavo dirle che a quattro anni un figlio va curato e trattato in un’altra maniera mi diceva che lei non aveva bambini. Secondo il suo punto di vista, condivisibile o meno, avrei dovuto arrangiarmi sia col mangiare che coi vestiti. Era capibile mia mamma. Ed a volte piangeva quando si chiudeva in camera sua. Così cercai di trovare un modo per arrangiarmi. Mi vestivo meglio che potevo, arrotolandomi addosso i pantaloni e le maglie lasciate dal mio ex padre, e mangiavo ciò che i vicini buttavano. Giocavo con i cani dell’isolato e, per fare in modo di riempirmi  la pancia, aprivo i cancelli e li liberavo in strada; appena i loro padroni accorrevano per recuperarli m’insinuavo nelle dispense altrui riempiendo anche lo zaino che mi portavo sempre appresso. Una volta in camera mia nascondevo il tutto fra le coperte, tanto già da molto tempo mia madre aveva smesso di fare il letto ed il bucato. Ormai non le potevo più considerare solo lenzuola. Erano un po’ di tutto. Una foresta per gli acari ed una giungla per i bigatti. Comunque, prendendola in maniera filosofica, avevo deciso di inventare un nuovo colore, lo sporco. Dormivo nelle parti più pulite per dare loro la stessa tonalità del resto e non lasciare chiazze diversificate. Purtroppo ci avevano staccato anche l’acqua e non avevo la possibilità di lavarmi. Ma anche se l’avessi avuta non avrei saputo come fare visto che nessuno mi aveva mai insegnato il meccanismo usato nei lavaggi. Per bere mi spostavo nelle cantine dove gli inquilini tenevano le scorte di minerale. Sembra incredibile a dirsi ma per almeno tre anni andai avanti così. Perlomeno credevo fossero tre anni... mi basavo esclusivamente sul mio aspetto. A quel tempo pensavo di dimostrarne sette anche se, ad essere onesto, quando andavo allo specchio e mi guardavo non capivo nemmeno io cosa realmente riflettesse e si vedesse. 
Ero un bambino vivace ma non avevo nessun dialogo, quindi facevo fatica a scandire le parole. A volte provavo a parlare con me stesso ma non comprendevo il significato di ciò che mi dicevo e, di conseguenza, facevo molta fatica a rispondermi. Per questo decisi di smettere di dire cavolate. Quando sentii bussare e vidi dallo spioncino degli uomini vestiti in modo strano non ebbi il coraggio di aprire. Non sapevo chi erano ed anche se sentivo i vicini chiamarli Vigili non capivo chi fossero e cosa volessero. Così, mentre loro cercavano di entrare, mi nascosi sopra l’armadio. Ci riuscirono grazie ad un'altro strano signore munito di trapano, punte, mazza, scarpelli e martello pneumatico. Una volta arrivati all'interno li sentii parlare.
Stai in occhio, guarda bene dappertutto, fai attenzione.”
Fu quel dialogo che mi fece capire il perché del loro nome. Il lavoro li portava ad esseri vigili ed accorti! Una botta improvvisa, l'urlo e la successiva imprecazione, mi fecero comprendere perché non li avessero chiamati "svegli"... bastava ed avanzava vigili. Un altro schianto ed i seguenti lamenti aumentò la mia convinzione che forse avrebbero dovuto mettere anche un punto di domanda dopo la parola, in modo che si pronunciasse: Vigili?Al terzo tonfo la mia opinione su di loro era precisa e legittima. Dopo pochi minuti di silenzio ripresero il dialogo.
Che cavolo di puzza è?”
C’è sicuramente un cadavere andato a male in casa.”
Chiama la squadra speciale.”
Non abbiamo una squadra speciale.”
Chiama i Vigili.”
Siamo noi i Vigili.”
Allora chiama i pompieri.”
Non ho il telefono.”
Continuarono a disquisire mentre a me prese quasi paura. Un morto in casa? Cos'era un morto? Un animale?Chi poteva essere? Sentii dire che si trattava dello scheletro di una donna. Lo scheletro di una donna? Che fosse mia madre? In effetti era ormai molto tempo che non la sentivo tornare la notte. E nemmeno partire nel pomeriggio. Inoltre da sotto la porta della sua camera uscivano strani animaletti colorati con cui avevo giocato diverse volte. Feci un urlo e mi cadde una goccia dagli occhi. Non era tristezza la mia; c'era un topo dove mi ero nascosto che aveva infilati i suoi denti nel mio polpaccio. Forse l'odore era simile a quello del formaggio. Gli presi i baffi strappandoglieli ad uno ad uno. Lui mi guardò supplichevole come per chiedermi scusa. Purtroppo quel grido mi fece scoprire. Quando scesi rimasero tutti a bocca aperta. Anzi no, quella fu l’unica cosa che tennero chiusa ed addirittura coperta dalla mano! Sul loro viso uno stupore genuino lasciò spazio a strane frasi. Ma non cercarono di avvicinarsi; anzi, se mi accostavo a qualcuno questo sembrava preso dal ballo di San Vito. Si dimenavano e si contorcevano nascondendo il naso sotto i baveri delle giacche.
Prendi quella cosa, sbrigati!”
Prendila tu!”
Chi è che comanda qui dentro?”
Io!”
Allora aspetta un attimo che chiamo Pietro e Paolo.”
Arrivarono due dall’aspetto rassegnato.
Catturate quell’essere, subito!”
Loro lo guardarono senza reagire. Erano proprio due Santi! 
Io, che mi ero appiattito ad una parete, chiusi gli occhi aspettando gli eventi. Passarono circa due ore, in cui ebbi modo di fare anche un pisolino, poi fu il buio. Mi avevano avvolto in una coperta sterilizzata, così la chiamarono, e dentro quella mi trasportarono all’esterno. La gente guardava chiedendosi chi fosse quella strana creatura. C'era chi parlava di profughi albanesi nani, chi di ratti giganteschi, chi era convinto fossi una sorta di coccodrillo, uno di quelli scappati l’anno prima dallo zoo e nascostisi nelle fogne. Mi chiesi a quali droghe si fossero affidati negli anni. Al canile comunale dovettero utilizzare almeno dieci metri cubi d’acqua ed una ventina di saponi e barattoli di shampo, oltre ad una non precisata quantità di spugne in acciaio, prima di capire che ero un bambino. Quando se ne accorsero mi trasferirono in ospedale. Il Primario mi vide e diede nuovamente l’ordine di lavarmi. Non voleva un essere così sporco e puzzolente nelle sue corsie. Allora, per pulirmi al meglio, andammo in sala operatoria e mi tolsero le prime cinque pelli. Per giustificarsi dissero che il lerciume si era annidato in profondità, molto in profondità. Stetti parecchi mesi steso su un letto, tutto impomatato e fasciato con bende che mi coprivano anche parte degli occhi. Mi alimentavano con un tubicino che dava il sapore di plastica a tutti gli ingredienti inseriti nel mio stomaco. Solo quando lo tolsero e cominciarono a farmi mangiare omogeneizzati capii che i pupi ai primi mesi di vita non hanno il gusto sviluppato. Il sapore non era quello che conoscevo, non c’era quel “che” di petrolio che tanto mi piaceva. Passarono diversi giorni; le infermiere s’erano accordate e messe in testa d’insegnarmi a parlare. Le mie corde vocali però erano ormai raggrinzite e dalla bocca mi usciva solo una parola: “Pappa”. Quindi mi rimpinzavano anche quando non avevo fame.
Se non ne vuoi più basta dircelo.”
Pappa.”
Portane dell’altra, poverino chissà da quanto tempo non mangia.”
Per colpa di quelle maledette cinque lettere ad otto anni pesavo quasi ottanta chili. Dovevo smettere di parlare oppure cambiare vocaboli. Così la notte mi esercitavo. A furia di provare riuscii a modificare “Pappa” in “Cacca”. Sorsero altri tipi di problemi. Quelle brave donne mi facevano passare le giornate in bagno. Quando non andavo di corpo mi riempivano di lassativi e, inoltre, tutto quello scombussolamento mi faceva sentire un enorme bruciore nelle parti interessate. Però in due mesi persi più di quaranta chili tornando al mio peso forma. Dovevo assolutamente ampliare il mio linguaggio. Così mi esercitai e dopo quindici giorni, in cui ero dimagrito ulteriormente arrivando a trentacinque, riuscii ad esprimermi meglio imparando la parola “Basta”. Mi avevano insegnato anche a lavarmi ed a mettermi il pigiama. Ormai, a quasi nove anni, mi sentivo pronto per affrontare il mondo. 
Una sera, approfittando dell’assenza di un’infermiera impegnata a ripassare strani argomenti anatomici con il dottore di turno, aprii la porta che mi avrebbe portato all’esterno. Avevo un fagotto in cui era stipata ogni cosa fosse possibile mangiare. L’unico scrupolo mi venne per il vestiario. Era notte, e quello che avevo addosso andava bene in quelle ore, ma l’indomani cosa avrebbero pensato di me le persone? Decisi di aspettare la luce per capire i loro pensieri. Nel frattempo osservai la città. Non ero mai uscito col buio e quello che vidi m’impressionò molto. Donne vestite, si fa per dire, più leggere di me, salivano e scendevano in auto non loro. Andavano, tornavano, e camminavano sculettando sul marciapiede. Decisi di soprannominarle “passeggiatrici notturne”. Cercai di capire quello strano comportamento, però arrivò mattina e mi trovai solo e spaesato in quei viali senza averlo ancora compreso. Cominciarono a passare le prime auto, poi i pullman stracarichi di persone, i motori, i tram, tutto s’era fatto caos. Mi sedetti in una panchina aspettando che tornasse la sera. In quel giorno capii che la notte è la parte più corta dell’intera giornata. Ero fermo in quella posizione da ore ed ore e la luce non se ne andava mai. Allora presi il fagotto cominciando a mangiare avidamente due mele. Un uomo vestito in maniera trasandata si sedette al mio fianco guardandomi. Io non conoscevo l’educazione e quando mi chiese qualcosa da mangiare gli diedi i torsoli, come facevo con i topi di casa mia, solo che loro sembravano contenti e lui invece aveva uno strano ghigno. Presi in fretta la mia roba andandomene. Una signora paffuta mi fermò mentre correvo sul marciapiede.
Dove va questo pupo impigiamato?”
Non sapevo quali dei miei pochi vocaboli estrapolare per rispondere. Avevo paura a dire “cacca” e non sentivo fame al momento. Optai per “mamma” sperando che mi lasciasse in pace.
Stai cercando la tua mammina? Poverino, aspetta che vediamo se quel signore ci da una mano.”
Quello che lei chiamava signore era un vigile. Si capiva da come controllava attentamente gli scontrini del parcheggio all’interno delle auto. Non mi andava di essere rimesso sotto una coperta ed appena la donna si voltò presi la corsa girando l’angolo. L’avevo scampata bella! Mi accorsi di una gelateria aperta e mi affrettai a mettermi in fila. Quando arrivò il mio turno segnai con un dito il cono più grande e con un altro la prima donna che vidi voltata di spalle. Andandomene mi accorsi del trambusto che il mio comportamento aveva creato, allora ricominciai a correre. Non era poi così difficile sopravvivere. Bastava fare un poco d’allenamento; ed io nei giorni successivi cominciai la preparazione. Di notte studiavo i movimenti delle passeggiatrici notturne, di giorno imparavo a conoscere la gente. Passò una settimana e mi resi conto che ancora non avevo dormito. Come ovviare a questa cosa? Non avevo sonno ma sapevo che bisognava chiudere gli occhi e riposarsi. Così mi stesi su una panchina ed aspettai. Passavano i minuti ed io mi sentivo vispo più che mai, ma alle prime luci cominciai a sbadigliare e gli occhi si chiusero. Li riaprii che era di nuovo buio. Vidi nel fazzoletto che mi era caduto a terra un’enorme quantità di ciò che poi imparai essere monete. Lo raccolsi cercando di contarle ma mi resi conto che nessuno mi aveva mai insegnato a farlo. Ci rimasi male. Avere tanti soldi e non sapere quanti fossero mi dava l’ansia. Allora li nascosi ed aspettai il mattino per cercare di sapere qualcosa in più sui numeri. Guardavo i venditori ambulanti prendere fogli di carta e modificarli con delle monete come le mie. Che strano mondo pensai. Scovai anche un negozio, che sentii chiamare banca, pieno di quei foglietti. Vidi le persone nasconderli in una specie di piccolo marsupio; le donne lo infilavano nella borsetta o nelle sporte della spesa, gli uomini lo mettevano nella tasca posteriore dei pantaloni. Alcuni sembravano strapieni e sporgevano all’esterno, altri erano striminziti o quasi vuoti. Dopo un mese, in cui dormivo di giorno e stavo sveglio la notte, mi accorsi dalla grande quantità di monete nascoste addosso a me. Cercai di trovare un luogo dove mettere quell’ammasso ferroso e molto pesante che avevo racimolato. A forza di guardare le scritte sui tram, di segnarle con un dito in modo che le persone mi dicessero il significato, ero ormai padrone dei numeri. Arrivavo a contare fino a nove. Quindi cominciai la conta di quei pezzi tondi. Però trovai subito dei problemi. C’erano monete piccole dove era scritto un cinque con uno zero, e monete grandi dove dietro al cinque erano due O. Che numeri erano mai quelli messi davanti ad una lettera? Quale era l’inghippo? Dovevo chiedere aiuto. Il giorno dopo entrai in uno di quei negozi chiamati banca e mi misi in fila. Il fatto che da ormai due mesi non mi lavassi fu fondamentale, tutti mi lasciarono passare; il venditore era all’interno, protetto da spessi vetri, quindi non poteva annusarmi. Tirai fuori tutte le monete e le misi sul piano aspettando di vedere il suo comportamento.
Vuoi dei soldi di carta?”
Riuscii a dire sì mentre le persone commentavano il mio modo di pormi. Per tutti ero una sorta di zingaro e non si meravigliarono di vedere i duemilioni di lire che quel signore, chiamato cassiere, mi aveva allungato dalla sua postazione. C’erano dei signorini impomatati vestiti di tutto punto, che soprannominai “fighetti”, con strani cosi scuri a protezione degli occhi. Li guardai chiedendo loro se i soldi che avevo raggranellato fossero pochi o molti? Mi osservarono, partendo dai capelli ed arrivando ai calzini, come se fossi stato l’ultimo dei barboni. Conoscendo una parola appropriata la usai, mandandoli in bagno. Per capire meglio la quantità di danaro che avevo provai ad entrare in un negozio dove facevano panini. Ne chiesi uno e sperai che i soldi mi bastassero. Dopo avermi fatto mille domande inutili sui miei gusti me lo diedero mandandomi alla cassa. La signorina mi sorrise chiedendomi duemila lire. Le diedi un foglio dov’era un cinque con quattro O, lei mi diede tanti altri soldi di resto. Capii che per finire tutto il mio avere dovevo comprare tantissimi panini. Avrei mangiato in eterno! 
Un giorno mi accorsi che la gente cominciava ad evitarmi. Alcuni si tappavano il naso, altri giravano al largo. Forse sarebbe stato meglio darsi una lavata, ma dove? Trovai una piazza con al centro una fontana che zampillava meravigliosamente. Entrai in un negozio ed acquistai un barattolo di sapone liquido ed uno shampo. Corsi all'esterno ma poi rallentai, nessuno si azzardava a scavalcare le catene che portavano all’acqua. Stavo per entrare quando capì il perché. Per lavarsi avrebbero dovuto spogliarsi. Si doveva provare vergogna a stare nudi fra la gente? Non volevano che gli altri scoprissero cosa avevano sotto i vestiti? Pensai che anch’io dovessi tenermi per me il mio aspetto interiore. Allora mi appartai aspettando il buio. Non era ancora sceso completamente che già alcuni fari cominciarono ad illuminare quella cosa schizzante. Poco m’importava, avrei aspettato fino a quando le persone non avessero fatto ritorno alle loro case. L’attesa fu lunga e noiosa, ma come previsto quel luogo ad una certa ora rimase vuoto. Scavalcai le catene e mi spogliai; misi tutto il mio corpo sotto un getto d’acqua, fra l’altro gelato, e versai tutto il contenuto della bottiglia sui capelli. Schiumavo da ogni parte. Ormai ero nascosto al mondo da una parete incredibilmente bianca e profumata. Nonostante le mie mani sfregassero, cercando di togliere lo sporco, ogni volta che mi guardavo ne trovavo dell’altro. Allora usai anche il sapone. Dopo molto tempo mi vidi perfettamente pulito. La schiuma però non accennava a diminuire, come sciacquarmi? Decisi di uscire ed aspettare che tutto tornasse come prima della mia entrata. Però dovevo anche asciugarmi, se avessi usato il pigiama mi sarei sporcato nuovamente. E con cosa mi sarei vestito? Scesi arrivando alle catene. Lo show schiumoso era impressionante e bellissimo. La fontana, completamente nascosta da una coltre bianca, non faceva fuoriuscire nessun particolare di quel marmo. Ero nudo ai piedi dello spettacolo più bello del mondo, anche perché avevo trascorso la mia vita in casa o all’ospedale, per questo non mi accorsi delle mani che mi avevano afferrato. Il solito vigile mi mise sotto la solita coperta. Non era lo stesso della volta precedente, anche se gli somigliava molto nei modi di fare. Pensai che nel fresco della notte vigilassero meglio, che fossero più svegli. Appena fui in corsia m’addormentai pensando di fuggire alla prima occasione. Quando mi svegliai aprii il cassetto del comodino vedendo che i miei soldi erano tutti lì, anche gli spiccioli. Mi avevano messo un pigiama rigato di bianco e di azzurro, dovevo assolutamente trovare dei vestiti. Cominciai a girare per i corridoi, altri bambini erano presenti oltre me. Aspettai sperando che si spostassero dalle loro camere. La mia attesa fu premiata e feci man bassa di abiti. Avevo trovato anche un paio di scarpe. Nascosi tutto complimentandomi per la furbizia.  Ero pronto per una nuova fuga! Decisi di non aspettare la notte, così mi vestii e chiamai l’ascensore; una volta all’interno spinsi sulla O, gli altri erano tutti numeri! Le porte si aprirono e mi trovai in un corridoio in fondo al quale si vedeva l’esterno. Camminai cautamente, cercando di non insospettire nessuno, ed uscii. Non avevo fagotti con me ma mi ero portato appresso i soldi. Avevo capito che senza quelli al mondo non si poteva vivere. Presi il primo tram, non m’importava dove fosse diretto. Vidi una strada addobbata e piena di negozi, mi piacque e scesi. Ora potevo dire d’essere una persona libera. Comprai subito un gelato e mi sedetti in una panchina. Osservavo le cose intorno, gli alberi e i piccioni. La gente non aveva tempo per guardarmi, tutti andavano di corsa presi da una fretta contagiosa. Io potevo permettermi di non muovermi, di restare seduto a pensare, loro no. Chissà perché non riuscivo più a stare sveglio. Di giorno dormivo e la notte, dopo avere passato qualche ora ad osservare il mondo ed a mangiare, mi sentivo nuovamente stanco. Passarono i mesi e mi accorsi che c’era qualcosa di diverso nell’aria, sentivo più freddo sulla pelle nonostante fossi vestito. Avevo quasi dieci anni e non dovevo preoccuparmi di niente. Anche se mi fossi raffreddato non sarebbe stato un grosso guaio. Comunque cominciai a camminare perché mi accorsi che il movimento mi scaldava. Arrivai in Centro e vidi diverse vetrate illuminate. Chiesi ad un signore cosa fosse e mi rispose: "O bella figliolo, non vedi che è un cinema? Dove si proiettano i film, capito?". Non avevo mai visto un film e mi chiesi cosa fosse, ma non avendolo mai visto non riuscii a darmi una risposta esauriente. Allora decisi di entrare. La signora mi vide e, indicando la locandina, mi fece segno di tornare indietro. Stavo uscendo quando la sentii parlare con un suo collega.
Ma pensa te, avrà avuto meno di dieci anni e voleva vedere un film a luci rosse. Cavolo se si svegliano presto i bambini di oggi! Quello se continua così scapperà sicuramente da casa prima o poi!”
Chissà perché non mi avevano fatto entrare. Per quale motivo usavano le luci rosse? Arrivai alla conclusione che i bambini, anche se hanno i soldi, non li possono vedere i perché il rosso rovina la vista. Questo mi rattristò molto dato che in un altro cinema notai all’esterno un manifesto con dei disegni. Poi mi accorsi dei ragazzini che entravano con i genitori. Allora capii che non si poteva entrare se si era soli, ma in compagnia sì. Quindi mi aggregai ad un gruppetto, allungai ad una signora un soldo uguale a quello dato dagli altri ed in cambio ottenni un fogliettino che, chissà per quale motivo, mi venne poi strappato. All’interno c’era molto buio, come quando è notte e tu hai la finestra aperta. Degli strani animali stavano parlando appiattiti al muro. Io non avevo mai sentito chiacchierare le bestie, era una cosa nuova e ne avevo un po’ paura. Quando il papero col cappello prese quello strano e lungo oggetto che sputava fuoco e palline, tirandole addosso al coniglio, fu il panico. Tutti ridevano ma lui diceva d’essere morto! Quando si rialzò tirai un sospiro di sollievo... poi cominciai a pensare. Allora quando uno muore non lo fa veramente! Perciò la mia mamma è ancora viva! Dovevo correre a casa e controllare. Ora avevo i soldi e lei sarebbe potuta restare con me. Corsi fuori e cominciai a cercare la strada dove avevo abitato. Mi ricordavo i cani e le ringhiere ma non mi riuscì di trovarla. Dovevo riposarmi, avrei cercato ancora l’indomani tanto ero libero e non avevo impegni. Il freddo, però, mi entrava nelle ossa e non riuscivo a stare su quella panchina. Decisi di tornare per una notte all’ospedale, lì era caldo, ma non sapevo quale tram prendere. Ancora le parole non uscivano con un senso compiuto dalla mia bocca, ma a forza di provare riuscì a biascicare ciò che volevo dire. Mi risposero che dovevo salire sul quattordici. Ma io arrivavo a contare fino a nove! Ciò che qualche giorno prima mi sembrava sufficiente ora non bastava più. Dovevo ampliare le mie conoscenze, sia letterarie che matematiche. Ebbi l’idea di sdraiarmi a terra e fingermi morto. La folla passava senza guardarmi, com’era possibile! Ruzzolai, strisciai, ma nessuno faceva caso a me. Poi finalmente una donna si fermò, mi chiese se avevo bisogno d’aiuto ed io riuscii a dire: “male”. Lei chiamò i Vigili; quella sera, forse, erano un po’ meno vigili del solito perché ci misero un paio d’ore ad arrivare! Quando mi videro, come al solito, mi coprirono. Pensai che fossero obbligati a girare con una coperta, o che per risolvere loro problemi esistenziali cercassero in quel panno una sorta di sicurezza. Mi accompagnarono all’ospedale, non era uno di quelli precedenti. Ogni volta mi avevano registrato con nomi diversi, stavolta sopra al letto c’erano sei lettere. Quando l’infermiera mi guardò, chiamandomi Davide, decisi d’impararmi quel nome e di tenermelo. Io sono Davide, io sono Davide. Lo ripetevo all’infinito. D’altronde una persona ha bisogno d’essere chiamata in qualche maniera. Io sono Davide. Ormai ero convinto. Ed inoltre mi piaceva come nome. Qual’era il mio? Quello vero? Non mi ricordavo niente. Nemmeno il viso di colui che non era mio padre. Sotto quelle coperte stavo bene. Decisi che sarei uscito il giorno e tornato la notte per dormire. Ma avevo fatto i conti senza conoscere l’aritmetica, quindi sbagliandoli. La mattina dopo venne una signorina accompagnata dai soliti vigili. Io mi guardavo attorno, non avevo visto la coperta e mi aspettavo che la tirassero fuori da un momento all’altro, invece non comparve. Però mi caricarono portandomi in una specie di convento. I muri di recinzione erano alquanto alti e le stanze avevano la serratura. Come avrei fatto a scappare? A girare libero per il mondo? Una volta rimasto solo provai ad aprire la porta. Non era chiusa a chiave ma all’esterno stava una suora che aveva la stessa larghezza di un tram. Non avrebbe mai potuto fare la passeggiatrice notturna, non stava sul marciapiede! Lei mi osservò prima di parlare.
Non hai lo sguardo cattivo Davide, ma devi imparare a rispettare i regolamenti. Prima regola esci solo quando io ti chiamo, hai capito?”
Probabilmente aspettava una risposta. Ero terrorizzato e non riuscivo a dire quel sì che lei voleva sentire. Allora si avvicinò col suo fisico possente. Mi aveva incantonato in un angolo del muro ed io risultavo invisibile, se mi avesse preso a schiaffi avrebbe dato l’impressione di darli alla parete. Le sue mani erano enormi! Osservai bene tutto il suo corpo perché, essendo così grossa, sospettavo potesse avere altre braccia nascoste da qualche parte. Dopo attento esame esclusi questa possibilità, anche se quelle che aveva facevano per sei. Cominciò ancora a parlare.
Allora tu sei un duro, di quelli che non rispondono. So io come fare con te! Conto fino a dieci, se ancora non avrai aperto bocca saranno guai! Uno, due…”
Speravo arrivasse oltre il dieci, almeno avrei imparato altri numeri, ma sentivo la paura crescere. Ad ogni istante che passava sentivo l’angoscia salire. Al sette ebbi i fremiti anche nei capelli ed al nove le ginocchia mi abbandonarono lasciandomi cadere a terra.
Non facciamo i damerini, tirati su bel bambino.”
Mi prese per il bavero della maglietta, che si allungò a dismisura, alzandomi. Avevo la sua faccia ad un millimetro dalla mia, vedevo le tonsille di quella donna vestita di grigio muoversi ad ogni parola scandita. Erano arrossate come la sua faccia!
Se tu sei Davide io sono Golia, e questa volta non mi colpirai con la tua fionda!”
Sicuramente mi aveva scambiato con un altro, io non sapevo nemmeno cosa fosse una fionda! Chissà se Golia era il suo vero nome. Ebbi paura che mi mordesse, invece mi trascinò in camera chiudendomi dentro. Ma prima di uscire sputò un’altra minaccia.
Presto tornerò e voglio sentire la tua voce, altrimenti sarà una dura e lenta agonia la tua!”
Dovevo assolutamente imparare a scandire le parole, l’avevo vista uscire a fatica dalla porta! Quell’essere infernale poteva veramente distruggermi. Cominciai le prove ma non sapevo da dove iniziare. Conoscevo “pappa, cacca, mamma, tutto”, ma non ero convinto che bastassero a calmare la bestia. Imparai la parola “gelato”, poi “bocca”, continuai a provare tutta la notte. Avevo fame e niente da mangiare. Mi sfogavo con l’unica frase che riuscivo a pronunciare, “mamma tutta cacca”, continuavo a ripeterla per sfogare almeno un po’ della mia rabbia. E’ bella la libertà se non hai freddo! Dalla finestra giunse la prima luce, dovevo insistere. Sicuramente presto sarebbe arrivata e io sarei stato nei guai. All’improvviso la porta si spalancò facendo spazio all’energumeno; aveva un vassoio con latte e biscotti.
Allora, sua signoria si degna di parlare con la servitù questa mattina?”
Mamma dice bocca mangia tutto gelato”
Ero riuscito a parlare, ma cosa avevo detto? Non capivo perché quel gigante fosse nervoso.
Tua madre ti darà il gelato la mattina, ma qui mangi quello che c’è. Se ti sta bene è così, altrimenti digiuni!”
Gli occhi s’erano allargati e le palle sembravano dovessero uscire da un momento all’altro. Aveva appoggiato il vassoio sul comodino in modo talmente brusco che parte del latte era straripato. Stava continuando a parlare con la sua vociona da tenore quando uscì lasciandomi solo. Mi tuffai sulla prima colazione mangiando e bevendo come un assatanato. Cosa voleva dire quella parola? Sapevo il significato di alcune, delle altre non mi era mai importato nulla. Però se avessi voluto dialogare dovevo sapere cosa dire. Non potevo farneticare. Pensai a come farmi capire dalla cicciona. Mi sforzai fino a quando feci una piccola frase che mi sembrava buona. Decisi di usarla alla prima occasione. Mi alzai provando ad aprire la porta che si spalancò. L’elefantessa era lì, seduta a due metri da me, le andai al fianco cercando di non tremare.
Mia bocca non dice parole”
Cosa stai blaterando ominide! Hai passato i dieci anni, non sei mica in fasce!”
Aveva capito il significato, dovevo insistere.
Mia bocca non dice parole”
Se ti vuoi prendere gioco di me caschi male. Ti pentirai d’avermi preso per i fondelli piccolo moscerino sporco e lercio!”
Mia bocca non dice parole”
E quelle che stai pronunciando da dove vengono? Chi sta parlando con me sottospecie di cacchina con le braccia?”
Cacca, mamma, pappa, tutto, gelato, mia bocca non dice parole”
Se insisti ti frantumerò in diecimila piccoli pezzettini e ti metterò nel brodo dandoti in pasto agli altri bambini! Ti prenderò per la testa e per i piedi strizzandoti fino a quanto non resterà solo la tua pelle pidocchiosa!”
Non ce la facevo più, cercai di non piangere ma le lacrime uscivano da sole. Non sapevo nemmeno cosa stessi facendo, non mi era mai capitato prima. Era il mio primo pianto. La dinosaura mi prese portandomi in un’altra stanza. C’era una donnina esile e smunta seduta dietro ad una vecchia scrivania.
Suor Corilde, questo piccolo essere crede di potersi prendere gioco di me!”
Cosa ha mai fatto Suor Abbondanza, mi pare che pianga... perché?”
Dice che non sa parlare. Eppure dalla sua bocca escono delle parole!”
Davvero piccino non sai parlare? Cos’è questa?”
Mise il dito su una foto, come la potevo chiamare? Non ne conoscevo il nome.
Mia bocca non dice parole”
Se davvero non sei capace di parlare t’insegneremo noi, l’importante è che tu capisca il significato dei discorsi. Lo capisci?”
Cominciai a mandare in su ed in giù la testa, non vedevo l’ora d’imparare il significato delle frasi. Di parlare tramite loro.
Bene. Suor Abbondanza si faccia onore ed insegni al nostro piccolo ospite tutto quello che sa, tranne quelle parole strane che a volte usa. Auguri a tutti e due.”
La montagna umana stava smoccolando mentre mi trascinava in una specie d’aula. Alle pareti avevano attaccato dei cartoncini dove erano disegni e lettere.
Siedi, cominciamo dall’asilo. Leggi cosa c’è scritto sul quadretto bianco.”
Non sapevo nemmeno cosa fosse il bianco. Mi guardavo attorno spaesato mentre leifumava come un vulcano prossimo all’esplosione.
Dove guardi? E’ questo! Dimmi cosa c’è!”
Era sicuramente un animale, ma quale? Non ne avevo la più pallida idea.
A. A come ape. Riconosci l’ape?!”
A come ape. Ape. Ape.”
Il vulcano calmò i fumi. Forse aveva capito che dicevo seriamente, che non sapevo davvero leggere.
B. B come bue. Questo è il bue.”
B come bue. Questo è il bue.”
C. C come cavallo. Questo è il cavallo.”
C come cavallo. Questo e il cavallo.”
Andammo avanti tutto il giorno ed a sera mi sentii più colto, più uguale agli altri. Suor Abbondanza mi aveva regalato una matita e qualche foglio. Prima di dormire ripassai la lezione e provai a scrivere. Avevo tanta voglia di crescere ma anche tanto sonno, e gli occhi si chiusero. La mattina, dopo colazione, mi precipitai all’aula; la mia insegnante era già al suo posto. Cominciai ad unire le parole. L’ape incontra il bue, entrambi vanno a cavallo e giocano coi dadi insieme alla farfalla. Era plausibile? D’altronde anche gli animali avevano una vita sociale e di relazioni come gli uomini, avevo visto il film e lo sapevo. Quante cose dovevano ancora entrare nella mia testa. Pensavo di essere grande ed invece ero il più piccolo dei piccoli. Mi impegnai tantissimo, qualche mese ancora e sarei stato istruito. A dodici anni credevo d’essere pronto per riaffrontare il mondo. Sapevo parlare e far di conto e conoscevo anche le tabelline. Cominciai a pensare a come scappare dal convento, perché mi avevano spiegato che lo era davvero. A sera uscivo di nascosto e giravo il giardino cercando un punto che potesse portarmi all’esterno. Purtroppo non ve n’erano. Dopo diverse ricognizioni cominciai ad aggregarmi agli altri bambini. Giocavano con una palla. Sapevo cos’era ma non mi spiegavo perché la prendessero a calci. Cosa aveva fatto di così cattivo per essere trattata a quel modo? Mi dissero che era un gioco, che i più bravi sarebbero andati a giocare nelle squadre migliori, che avrebbero guadagnato tanti soldi. Fu in quell'esatto secondo che mi ricordai dei miei. Dov’erano finiti? Corsi in camera cercando in ogni cassetto, nell’armadio. Niente. Quando uscii vidi Suor Abbondanza. Ormai ero in confidenza e quindi decisi di parlarle.
Abby, sai dove sono i soldi che avevo quando mi hanno portato qui?”
Sicuramente li ha Suor Corilde. Te li farà fruttare e, quando a diciotto anni uscirai da qui, te li ridarà.”
Io non voglio la frutta ma i soldi.”
Fruttare in questo caso vuol dire aumentare, te ne darà di più di quelli che hai ora.”
Perché devo aspettare di avere diciotto anni per uscire?”
Per la legge italiana è a quell’età che si diventa maggiorenni.”
Cosa vuol dire?”
Che sarai libero di fare ciò che vuoi tranne comportarti male. Quindi potrai cercarti un lavoro, una casa ed una brava donna che ti sposi.”
In che senso? Tu sei sposata?”
Certamente. Mio marito è Gesù Cristo. Ma ognuno è libero di avere le proprie idee, non tutte le donne diventano suore.”
Sapevo chi era l’uomo che diceva Abby, mi avevano insegnato a pregarlo e a rispettarlo. Lui e suo Padre avevano costruito la terra e il cielo. Ho sempre pensato fossero persone speciali, non è da tutti avere dei superpoteri come i loro. Inoltre avevano avuto un idea veramente Divina, chi avrebbe mai pensato di realizzare un’opera così grandiosa e Colossale? In sette giorni fra l’altro. Io avevo impiegato lo stesso tempo, il Natale precedente, per fare il presepe! Però non capivo perché si fosse sposato con una donna così cicciona, ce n’erano di migliori al mondo. Ritornai dai miei nuovi amici. Mentre uno contava fino a cento gli altri si nascondevano. Anche io ero capace di contare. Provai ad imparare a nascondermi ma non c’era verso, tutte le volte mi trovavano. Allora mi appartai cominciando una discussione con Gennaro, veniva da Napoli; mi spiegò che era una grande città e che lui si chiamava come il Santo più famoso del meridione. Parlava di suo padre dicendo che era uno strano soggetto molto violento, che aveva picchiato tutta la famiglia, compresi il cane e il gatto. Anch’io gli dissi che il mio mi aveva preso per il collo cercando di strozzarmi. Lui continuò citando i coltelli e le pistole presenti in casa sua. Io raccontai la storia del topo che mi aveva morso. Lui disse che i suoi usavano le forchette per ferirsi quando non avevano nulla da mangiare. Così gli raccontai del mio modo di procurarmi il cibo. Avevo finalmente dialogato con un altro. Mi ero anche fatto capire bene. Stavo crescendo ma non mi spiegavo perché sarei dovuto restare fino ai diciotto anni. Ritornammo tutti dentro, il pranzo era servito. Al mio fianco, in quell’enorme tavola, sedeva una ragazzina di nome Gloria. Aveva i capelli rossi e le lentiggini. Mi faceva sempre grandi sorrisi e quando gli altri se ne accorgevano cominciavano a ridere. Passarono pochi giorni e trovai sotto la porta della mia camera un bigliettino scritto da lei. Diceva che le piacevo, che ero un ragazzino interessante e che avrebbe voluto conoscermi meglio. Mi dava appuntamento per le dieci di quella sera in giardino. Aveva qualche mese più di me e mi metteva un po’ in soggezione, ma pensai che forse aveva trovato un modo per scappare. Ci trovammo sotto una pianta piena di rami. Mi prese la mano portandomi fino alla fine del parco, sotto il muro di recinzione, da quel punto nessuno ci poteva vedere. Mi disse di baciarla ed io rimasi di stucco, non avevo mai dato un bacio a nessuno. Allora mise le sue labbra sopra le mie. Non so dire se fosse una cosa bella oppure no, avevo la bocca umida ed a dire la verità mi faceva un po’ schifo. Da quella sera non si staccò più da me, dov’ero io era lei. Più che un’ossessione era un incubo. Ogni tanto mi diceva “ti amo”, ed io non capivo cosa intendesse dire. Cercai l’aiuto di Abby che mi spiegò il significato di quelle parole. Quando Gloria mi venne accanto e mi ripeté per l'ennesima volta “ti amo” dissi: “Io no”. Mi sarei aspettato che si arrabbiasse, invece tranquillamente riprese dicendo che col tempo l’avrei amata, che eravamo fatti l’uno per l’altra e cose di questo genere. Gli altri ci guardavano e ridevano, io dovevo fare qualcosa. Erano anni ormai che mi trovavo in quel convento! Non avevo tenuto il conto della mia età ma Gloria mi disse che stava per arrivare il giorno del mio quindicesimo compleanno, che per festeggiare mi avrebbe preparato una torta al cioccolato. Mi piaceva quella crema che somigliava alla cacca ma con un sapore decisamente migliore. Anche se a dire il vero la cacca non l'avevo mai assaggiata. Mi basavo, per le mie conclusioni, solo sull’odore molto diverso da quello della cioccolata. Mentre ero immerso in questi pensieri lei mi strinse forte a sé dicendomi.
Lo sai che è afrodisiaca?”
Non sapevo il significato di quella parola, quindi le chiesi cosa volesse dire.
Che ti fa aumentare le voglie a livello sessuale.”
Ecco altri vocaboli che mi risultavano strani. Chiesi un’ulteriore spiegazione.
Ma amore, non senti qualcosa di diverso in te quando mi stai vicino?”
Così dicendo mise la sua mano sul cavallo dei miei pantaloni toccandomi quello che io credevo essere una sorta di malattia. Ora capivo perché quello strano coso che mi portavo appresso cresceva o calava in base alle situazioni in cui mi trovavo! Però non sapevo se l’avevo solo io o anche gli altri. Gloria mi chiese di raggiungerla quella notte, che ci avrebbe pensato lei a farmi capire. Ero titubante, non sapevo se andare al parco fosse davvero la cosa giusta. Poi mi decisi e scesi le scale. Lei come il solito era sotto la pianta. Mi prese la mano e come sempre mi trascinò in fondo. Appena arrivammo si tolse il vestito e le mutandine. Restai di sasso, era completamente diversa da me! Inoltre aveva due gonfiori sul petto che mi preoccupavano. Fu lei a farmi la prima lezione di anatomia. A quel punto volle che mi spogliassi. Avevo una certa vergogna, quella specie di protuberanza era cresciuta, ma per non essere da meno l’accontentai. Fu in quel modo che scoprii il sesso. Devo dire che non era male, che da quella notte sono sceso sempre più volentieri al parco. Mi sentivo grande. C’era solo un problema, dopo le prime volte cominciò ad urlare. Diceva che quegli strilli le uscivano involontariamente perché provava piacere. Dovetti ingegnarmi e chiuderle la bocca con la mia. Ad essere sincero neanche questo mi dispiaceva più. Ma una notte, all’improvviso e senza far rumore, arrivò Suor Abbondanza. Mi pareva impossibile che la sua stazza potesse librarsi cosi leggera e silenziosa, eppure mentre eravamo sessualmente impegnati ci giunse una voce.
Brutti serpenti velenosi! Queste cose non si fanno nella casa del Signore! Volete giocare a fare le persone adulte e mature? Venite con me, vi faccio vedere io come si trattano due maiali come voi!”
La sua forza superava ogni aspettativa. Ci prese per i capelli trascinandoci nei sotterranei e rinchiudendoci in due celle dove tutto era in pietra, anche il letto. La sentì urlare contro Gloria.
Diecimila Ave Maria e diecimila Pater Nostrum! Di seguito e senza mai fermarti!”
La sentii arrivare davanti alla mia porta. Sperai che passasse andando oltre invece i suoi strilli entravano dentro la stanza e, rimbalzando da parete a parete, mi colpivano sferzandomi violentemente.
Tu, figlio del Demonio! Resterai chiuso fino a quando non sbollirai gli spiriti del male che aleggiano in te! Ventimila Ave Maria e Ventimila Pater Nostrum! Senza fermarti!”
Non credevo di avere fatto una cosa tanto grave, era una specie di gioco. Eravamo abbastanza grandi per farlo altrimenti non ci saremmo riusciti. Cominciai le preghiere, quarantamila non erano poche. Ogni volta che mi fermavo le urla della suora mi entravano nel cervello. Rimasi un mese chiuso a pane acqua e preghiere. Quando uscii Gloria era sparita. Gli altri ragazzi dissero che l’avevano trasferita. A me mancava veramente molto. Andai da Suor Corilde chiedendole dove fosse stata mandata.
Tu eri innamorato? Sei veramente certo oppure ti piaceva solo fare sesso? Ti manca lei o il suo corpo?”
Non lo so per certo, però ne sento la mancanza.”
Fra tre anni uscirai e se vorrai ti darò il suo indirizzo. E’ tornata a casa dalla madre, il tribunale gliel’ha riaffidata.”
Quando uscii cominciai a guardarmi attorno. C’erano altre ragazzine che mi guardavano come fossi stato il più grande esperto di sessuologia. La voce s’era sparsa. Pensai che in fondo una femmina valeva l’altra. Ero curioso di sapere se i loro corpi erano tutti somiglianti, purtroppo per me Abby non mi mollava un secondo. Di notte mi chiudeva a chiave e di giorno era difficoltoso anche andar in bagno. A volte la trovavo all’ingresso dei gabinetti che mi guardava alzando un dito in segno di monito. Dovetti rigare dritto per forza. Fu allora che cominciai a dormire di giorno fingendo d’essere desto. Dormivo costantemente, volevo essere riposato per il momento della mia liberazione. Mi assopivo con gli occhi aperti e sorridevo perché volevo che tutti mi credessero sveglio... e ci credevano. Quando arrivai ai diciotto anni Suor Corilde mi mandò a chiamare.
Davide, ora sei maggiorenne e da qui comincia la tua vita. Questi sono i tuoi documenti e questi i soldi che avevi il giorno che sei entrato. Non deludermi. Ho cercato per te un lavoro, ti ho scritto l’indirizzo nel foglio che troverai fra la carta d’identità, in questo c’è il nome di un parroco che affitta stanze. Se sarai capace di adattarti diventerai un vero uomo, dammi un bacio e vienici a trovare qualche volta.
Io, che avevo fatto quelle smancerie solo con Gloria, misi le mie labbra sulle sue spingendo con la lingua. Mi dette un ceffone che, ero sicuro, mi avrebbe lasciato il segno per una settimana. Questo mi fece ricordare la mia ragazza.
Aveva detto che mi avrebbe dato l’indirizzo, ricorda?”
E’ vero, ed anche se hai provato a limonarmi non covo vendetta e mantengo la promessa.”
Forse non la covava perché già l’aveva ottenuta, visto il bruciore sul mio viso. La faccia era infiammata come se vi fosse stato scaricato sopra un camion di catrame liquido. Non sapevo se quello che avevo pensato si confacesse alla situazione, ma era un pensiero spontaneo. Uscii dalla porta principale e cercai la strada che mi avrebbe portato dal mio primo amore. Non vedevo l’ora d’incontrarla. Quando fui davanti alla sua porta suonai. Venne ad aprirmi una signora coperta, si fa per dire, da una vestaglia trasparente. Mi chiese chi desiderassi e come pronunciai il nome Gloria mi disse: “Trecentomila”. Rimasi spiazzato e deluso. Guardai le scale e la vidi scendere. Mi salutò con un gran sorriso ma non ho mai creduto m’avesse veramente riconosciuto. Lasciai perdere le mie voglie ed andai dal parroco per la stanza. Mi chiese quattrocentomila lire al mese; nicchiai, non sapevo ancora se avessi mai lavorato. Inoltre quella stanza era priva di bagno ed aveva un letto troppo piccolo. Fra l’altro avrei vissuto a pochi metri da un uomo di chiesa. Non mi andava di dire altre quarantamila preghiere la prima volta che avessi portato in casa una ragazza! Quindi lo lasciai precipitandomi all’indirizzo della fabbrica dove mi avrebbero di certo assunto. Era una ditta di spurghi. Pulivano i cessi ed i pozzetti dagli escrementi, gli operai somigliavano incredibilmente alla materia che maneggiavano abitualmente. Mi ricordai le mie prime parole, quindi dissi “cacca” e me ne andai. Non era il massimo come impiego. Decisi di cercarlo da solo. Passai tutta la zona industriale e mi fermai nelle ditte che più mi si adattavano. Volevo un lavoro pulito e remunerativo. Purtroppo tutti dissero che quel tipo di attività l’avevano finita anni prima, che al momento avevano rimasto solo incarichi sporchi e sottopagati. Tornai in strada, mentre camminavo pensavo a cosa ero capace di fare. In effetti non avevo mai fatto nulla in vita mia, tranne che dormire. Girai trovando una piazza ed una panchina dove sedermi. Mi guardai attorno. La gente affollava quel luogo pieno di fontane e rideva osservando gli acrobati ed i saltimbanchi. Avrei potuto mettere un fazzoletto a terra e stendermi. Chissà se mai l’avessi trovato pieno di monetine al risveglio? Però gli altri per farsi dare qualche soldo qualcosa facevano, non avrei avuto successo dormendo. Fu allora che mi venne l’idea. Ero solo capace di non fare niente, di dormire, ed il mio niente poteva farmi guadagnare. Corsi in un negozio ed acquistai il necessario per il mio primo lavoro. Tornai alla piazza e cominciai la preparazione. Misi a terra una coperta e presi il vestito ed il fondotinta. In quindici minuti ero perfetto. Preparai un berretto capiente e mi raggomitolai sul panno steso davanti alla fontana cominciando a pensare alla mia vita. A quando avevo un anno ed i miei genitori andavano d’amore e d’accordo. Si capiva da come il letto cigolasse la notte che andavano d'amore e d'accordo! Magari durante il giorno si rompevano dei piatti in testa e si ritrovavano spesso al pronto soccorso, ma quando arrivava il momento di dormire nessuno dei due chiudeva gli occhi! Mia madre era bellissima. Ogni due giorni passava dal parrucchiere ed ogni due giorni andava al salone di bellezza. Io non capivo perché quando mio padre era al lavoro la casa fosse un continuo andirivieni di uomini. Comunque un giorno lui mi prese portandomi in salotto. Io non sapevo cosa volesse dire prendere le botte. Così quando mise le mani sul mio collo, cercando di strozzarmi, non capii subito le sue intenzioni. Abituato ai giochi credevo che ne avesse inventato uno nuovo, diverso. All’inizio sorrisi cercando di nascondere l’imbarazzo che mi pervadeva…

Davide. Davide! Dai che è ora di andare. Non c’è più nessuno, Piazza Navona è vuota.”
Porca miseria che dormita mi sono fatto.”
Hai sempre il tuo metodo? Pensi ancora alla tua vita?”
Faccio di più, me la racconto; sono dieci anni che ogni giorno rivivo il mio passato. Anche perché da quando sono qui non posso dire di avere vissuto. Tutto passa senza lasciare traccia o ricordi.”
Per forza, cambi maschera ma sotto quell’enorme sorriso dormi. La gente si chiede come fai a restare così immobile. Tanti bambini ti mettono le mani davanti agli occhi ma tu impassibile non ti muovi, sei incredibile. Hai tu le chiavi di casa?”
Credo di sì, cosa c’è da mangiare?”
Non ricordo cosa sia rimasto in frigo, ma abbiamo tempo per prepararci qualcosa.”
Non mettiamocene molto, sono tanto stanco ed ho troppo sonno! Tu non sai quanto sfinisce stare fermi a non far niente, quando è notte hai solo voglia di dormire.
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