mercoledì 3 novembre 2010

Vuoti di memoria

 Il suono del campanello rimbombava fra le stanze fredde della casa; lui, sdraiato sul letto e coperto solo di vestiti sporchi, fissava il vuoto. Il trillio riprese con più vigore. Non avrebbe di certo aperto. Richiuse gli occhi e liberò l'immaginazione. Seguendo il dito dalla forma adunca, premuto sul cerchietto di plastica, arrivò, passando dal braccio chiaramente reumatico, a scoprire la fattezza del volto e la smorfia di esagerata serietà dipinta sopra ad un enorme nasone ricurvo. Vide il ghigno attraversare orizzontalmente le guance ed adagiarsi sulla minuscola e sottile bocca arcuata verso il basso. Era sicuramente la fisionomia di uno di loro, se lo sentiva, anche se l’orario non sembrava quello giusto per la visita di un ufficiale giudiziario. Non voleva pignorassero altre cose. Neppure il divano, ormai vecchio logoro e stanco, che aspettava solo qualcuno disposto a caricarlo in un furgone ed a portarselo via. Prese una delle ultime tre sigarette, accendendola con un cerino che lasciò il suo odore acre nella stanza, e controllò le tasche. Aveva rimasto venti centesimi ed un biglietto del tram. Maledì tutti gli Dei di questo mondo andando oltre il lecito dell’educazione. Poi si pentì di quelle parole e chiese scusa, se davvero fossero esistiti avrebbe preferito farseli amici. Doveva bere. Prese l’ultimo bicchiere sano e cercò l’acqua nel rubinetto. Un rumore sinistro provenne dalle tubature vuote. Accidenti a quelle maledette bollette! Sentiva sete, tanta sete. Chissà perché quando una cosa manca la mente fa in modo che il corpo ne abbia voglia. Decise di tornare steso; passò dal corridoio e trasalì sentendo bussare con violenza. Chiunque fosse il suonatore misterioso non s’era rassegnato e, salendo al secondo piano di quel vecchio condominio, sperava forse di riuscire ad entrare nell’appartamento. S’avvicinò cautamente allo spioncino, dietro la porta un uomo di circa cinquant’anni. Il volto di pietra s’intonava con i capelli rasati a zero ed il naso, piegato leggermente sulla destra, faceva supporre che in gioventù avesse frequentato palestre e praticato l’arte del pugilato. Non l’aveva mai visto e si chiedeva chi fosse, cosa mai volesse da lui. Era sicuramente venuto a riscuotere vecchi debiti, figurarsi se non cercava soldi! Non ricordava neanche più a chi dovesse denaro. Chissà quanto voleva. Forse quattromila, cinquemila, o persino seimila euro! Ma per quale motivo doveva pagare tanti quattrini? Avrebbe potuto dargli i venti centesimi e dirgli di tornare più avanti per il resto. Quel pensiero lo fece sorridere anche se non era né il caso né il momento per farlo. Lo lasciò andando al bagno. Aveva un bisogno urgente ma non sapeva come fare a pulire. Aprì il rubinetto sperando in un miracolo. Ancora quel rumore sinistro. Doveva scendere ed entrare in un bar. Si guardò allo specchio accorgendosi di non avere la faccia migliore. I capelli schiacciati gli arrotondavano il viso e gli occhi incrostati volevano essere almeno bagnati. La barba aveva già lambito gli zigomi e la lametta che stava provando ad usare senza l'aiuto dell'acqua non tagliava. La mise in tasca e, dirigendosi verso la porta, cercò di capire se l’uomo fosse ancora presente. Nessuno dall’altro lato. Raccolse il pacco con le due sigarette, prese i fiammiferi, le chiavi, ed uscì. Guardò dalla tromba delle scale per verificare che non vi fosse nessuno, si rassicurò e scese fino all’androne. Aspettò un attimo e, prima di portarsi all’esterno, aprì la cassetta della posta trovandovi diversi avvisi, ivi compreso quello di una ditta sconosciuta che forse era rappresentata dall’omone di poco prima. Uno lo preoccupò più degli altri. L’Enel voleva urgentemente centoventicinque euro, in caso contrario avrebbe staccato la fornitura di corrente alle nove dell’indomani. Di bene in meglio!

L’aria di quel Dicembre era gelida e lui non s’era coperto abbastanza. D'altronde con cosa si sarebbe potuto coprire? Cercò un bar notando, purtroppo, che quello posizionato all’angolo era chiuso. Si guardò attorno sperando di avere un’idea; vide il tram fermarsi, prese la corsa riuscendo a salire. Aveva in tasca il biglietto e, mentre tutti l’osservavano in modo strano, l’infilò nella macchinetta facendola suonare. Ora era un passeggero regolare. Si sedette nella parte posteriore mentre gli occhi dei presenti non si staccavano dalla sua figura. Lui mise i suoi fuori del finestrino cercando di allontanare la vergogna e le lacrime ormai scese sulle guance. Mancava poco a Natale. In quel pomeriggio grigio di foschia le vetrine illuminate e gli addobbi del Comune luccicavano a festa le strade. Si sentiva fuori luogo. Guardò le persone notando come fossero vestite bene. Le donne indossavano cappotti o pellicce, gli uomini avevano un portamento signorile all'interno dei loro abiti scuri. Perché il destino lo voleva ridotto così? Ripensava ai momenti lieti, alle festività. Ricordava ancora Aurora e Giacomo intenti ad addobbare l’albero, la risata felice di Dora che, stretta a lui sul divano, guardava i loro figli appendere palline e strisce colorate. Cos’era successo di tanto grave da ridurlo solo, senza famiglia e senza soldi? La memoria non l’aiutava. Pensava, ma non aveva niente da ricordare. Cosa doveva farsi tornare alla mente? Il lavoro? Quale lavoro? Dov’erano andati sua moglie ed i bambini? Perché non erano rimasti con lui? Dove stava andando quel tram? Ritornò presente quando al di là dei vetri comparve la sagoma dell’ospedale. Scese entrando dalla porta del pronto soccorso; la gente continuava a fissarlo come fosse stato un barbone. S’insinuò fra i corridoi alla ricerca di un bagno aperto. Prese la via che portava agli ambulatori, a quell’ora certamente deserti. Le piccole insegne illuminate ai lati di quello spazioso e lungo corridoio segnalavano due toilette. Provò ad aprire la prima, che però resistette alla sua spinta, poi fece dieci passi arrivando alla seconda, era socchiusa. Appena all’interno entrò nell'ultimo dei due vani sedendosi sulla tazza. Stava cercando di ricordare perché non aveva più una famiglia; si sentiva stanco e raffreddato ma in quello stanzino caldo il suo corpo stava già molto meglio. Un rumore all’esterno gli fece capire che qualcun altro aveva scelto quel bagno. Si lavava il viso ed aveva un respiro affannoso come se avesse corso o faticato. La maniglia della porta s’abbassò ma la chiusura resistette alla sollecitazione; lui, immobile, aveva congelato il respiro. Non voleva lo cacciassero via, doveva ancora lavarsi e radersi. Fortunatamente lo sentì entrare nello stanzino accanto. Ora tossiva e forse vomitava. Un rumore improvviso, come un tonfo, riempì quel piccolo locale. Si udivano rantoli di dolore. Cosa doveva fare? Restò immobile ancora qualche secondo poi si convinse ed allungò una mano per aprire. Il gesto s’interruppe quando dei rumorosi passi gli giunsero alle orecchie. Qualcuno stava entrando, sentì la chiave girare nella serratura. Chiunque fosse s’era chiuso dentro. Voleva almeno scaricare l’acqua. La puzza aveva riempito quel piccolo stanzino senza finestre. E con la luce spenta anche l’aspiratore non funzionava. Il malsano odore, che lui stesso aveva creato, senza alcun invito entrava copioso dalle narici. Appiattito al muro aspettava che accadesse qualcosa. Infatti dopo poco sentì una specie di urlo strozzato e dei singhiozzi. Sembrava il pianto sommesso di una donna. Il rumore della chiave ed i passi nel corridoio gli fecero pensare d’essere rimasto solo. Aspettò che tornasse il silenzio, fece scorrere l’acqua ed uscì trovandosi faccia a faccia con se stesso. Chissà se quello specchio rifletteva la verità? Non si riconosceva. Tolse la maglia ed i pantaloni cominciando un rapido lavaggio; il sapone liquido di quella toilette era profumatissimo e si diffuse nell’aria dandogli l’impressione del pulito. Non c’erano salviette e decise di asciugarsi con la carta igienica. Bagnò i capelli e li risistemò con le dita. Tolse la lametta dalla tasca e provò a tagliare quei peli cresciuti oltre il territorio di pertinenza. Ci stava riuscendo ma la pelle s’era arrossata ed aveva bisogno d’essere inumidita. Il rotolo, recuperato nel bagno da lui usato in precedenza, stava finendo, quindi aprì la porta dell’altro per prenderne uno nuovo. Stava per entrare ma si blocco! Un uomo di circa sessant’anni era steso a terra. Gli occhi sbarrati controllavano attentamente il soffitto. La testa su cui erano posizionati si trovava fra il water ed il muro, le gambe piegate sotto il corpo avevano una posizione innaturale, non si vedevano i piedi. Probabilmente era prima caduto sulle ginocchia e poi all’indietro. Il camice bianco faceva supporre si trattasse di un dottore, anche se la targhetta di riconoscimento non si trovava dove avrebbe dovuto essere. Qualche goccia di sangue, ormai coagulato, aveva sporcato la pelle sulla punta delle dita. Guardando bene, infatti, si vedevano alcuni piccoli tagli. Il portafoglio spuntava dal taschino sul petto, lo prese in mano aprendolo. Vi trovò venti carte da cinquecento euro e niente altro, neppure un documento. Guardò quei soldi indeciso su come comportarsi; pensò di prenderli in consegna e di non lasciarli in balia di eventuali ladri. Raccolse i pantaloni lasciati a terra, li scrollò infilandoseli e nascose il denaro al sicuro in una tasca. Prese la maglia ed il paletot finendo la vestizione. I capelli quasi asciutti gli davano un aspetto ribelle ma convincente; aprì il rubinetto bevendo come non aveva mai fatto. Quando sentì lo stomaco fargli male smise, si riguardò allo specchio e pulì il portafoglio dell’uomo con la carta rimasta. Risistemò tutto asciugando bene anche il lavello e buttando i residui nel water. Ora doveva solo uscire; avrebbe potuto chiudere a chiave, così nessuno si sarebbe accorto subito del morto, ma la coscienza non glielo permise. Spalancò la porta affinché fosse ben visibile il bagno aperto, uscì nel corridoio ed aprì al massimo anche l’altra. Ora era tranquillo, qualcuno di lì a poco lo avrebbe certamente notato.

Prese le scale arrivando al piano terra. Avviandosi verso l’esterno sentì l’aria tagliente entrargli nelle ossa. Prese una decisione importante. Doveva comprare qualcosa di pesante da indossare. Un tram stava partendo con poche persone a bordo; salì velocemente ed infilò il biglietto dalla parte opposta a quella già utilizzata. La macchinetta suonò ed il conducente riprese la strada. Seduto in fondo a quel mezzo, che non sapeva dove andasse, ripensava ai rumori uditi pochi minuti prima. Aveva sentito l’acqua scorrere e l’uomo tossire, poi? Possibile che nient’altro fosse accaduto? Com’era morto? Nessun rumore di lotta o colluttazioni. Ricordava solo il respiro affannato e gli sforzi di vomito. Ma il water era pulito e non aveva sentito l’acqua scorrere. Era morto in modo naturale oppure l’avevano ucciso? Qualcuno spinse il pulsante di fermata ed il campanello suonò. Il tranviere rallentò fermandosi davanti ad un grande ipermercato. Ne approfittò per scendere velocemente ed entrare all’interno di quell’enorme negozio; abiti e cappotti si mostravano eleganti e belli dietro le vetrine. Le commesse, non considerando il suo modo di vestire, gli fecero provare di tutto. Uscì irriconoscibile. Aveva sistemato i panni vecchi in una sportina di plastica, doveva portarli a casa. Si fermò in tabaccheria per acquistare due pacchi di sigarette ed una stecca di biglietti per il tram; uscì e s’avviò all’esterno dove una rosticceria, posizionata all’entrata di quel centro, spandeva odori invitanti nell’aria. Comprò un pollo, delle patatine fritte, una bibita e due bottiglie d’acqua; infilò tutto in un’altra sporta allontanandosi. Dall’altro lato, in un negozio di scarpe, aveva adocchiato un paio di scarponcini che riteneva caldi e comodi. Li prese perché il costo non sembrava eccessivo. Ora era stracolmo. Non aveva più dita da infilare nei manici di sacchetti e sportine. Fortuna volle che il tram diretto al suo quartiere non tardasse. Le persone non facevano più caso a lui, ai suoi vestiti. Scese andando verso l’androne del condominio. Riuscì ad arrivare fino all’appartamento freddo che abitava. Accese la luce e mise in tavola l’ultimo piatto sano ed una forchetta. Doveva ricordarsi di pagare la bolletta appena fosse arrivato il nuovo giorno. Mangiò avidamente quella pietanza croccante, bevve la bibita ed usò l’acqua per lavarsi le mani. Incredibile come un uomo si senta meglio a stomaco pieno. Anche il gelo che aleggiava in quella stanza era sopportabile ora che aveva mangiato e bevuto. Mise il cappotto tornando in strada; aveva fatto bene a tenersi quei soldi non suoi? Il pensiero del dottore steso senza vita in quel bagno cominciò a serpeggiare nella sua mente. Chissà se l’avevano trovato? Stava camminando sui marciapiedi puliti della sua città andando verso il Centro Storico. Aveva tanto, forse troppo denaro in tasca. Tornò sui suoi passi rientrando in casa. Nascose novemila euro nell’armadio, insieme alla bolletta dell’Enel, tenendo per se i quattrocento in pezzi da cinquanta. Ora si sentiva più tranquillo. Riprese la passeggiata cercando di ricordare perché la sua famiglia l’avesse abbandonato. Aurora, Giacomo e Dora, chissà dov’erano finiti? Camminò fra la gente, tra le vie decorate a festa, sentendosi parte del mondo. Anche se niente l’attirava guardava la merce esposta nei negozi ancora aperti. Cercava un bar dove prendere un buon caffè, uno che non fosse stracolmo di clienti. Lo trovò accanto ad una bottega che vendeva di tutto, comprese delle confortevoli termocoperte. Decise d’acquistarne una, tanto più che il prezzo era modico. Si sentiva tranquillo, avrebbe pagato le bollette dell’acqua e del gas, facendo in modo che in quell’appartamento tornasse la normalità, ed avrebbe ripreso il lavoro. Ma cosa sapeva fare? Non c’erano ricordi nella sua mente. Come mai aveva memoria del presente e non del passato? Sarebbe andato anche da un dottore, sentiva il bisogno di riappropriarsi della sua vita. Chissà com’era morto quell’uomo in camice bianco? Perché la donna che piangeva non aveva chiesto aiuto? Voleva scoprire le cause di quel decesso, glielo doveva. Non avesse avuto un prestito dal cadavere sarebbe rimasto chiuso in casa a fumare l’ultima sigaretta senza prospettive.

Fermò un tram salendovi, voleva tornare all’ospedale. Osservò il suo volto riflesso nel grande specchio accanto al conducente, aveva l’espressione di chi sapeva cosa fare nel prossimo futuro. Mentre le luci gli sfilavano accanto pensava a come risolvere il caso del camice bianco. La prima cosa da scoprire era l’identità del morto. Arrivato in quell’edificio stracolmo di malati si diresse subito agli ambulatori. Tutto si presentava come in precedenza, anche la porta aperta esattamente come lui l’aveva lasciata. Il corpo, steso ancora nella medesima posizione, era ormai freddo. Cercò l’ufficio informazioni. Non trovando nessuno dietro lo sportello s’avviò verso il pronto soccorso dove sicuramente era di guardia una pattuglia della Polizia. Tutto sbagliato! Rifece il percorso inverso ritrovandosi nuovamente al bagno; cercando meglio vide un tesserino sanitario sporgere da un taschino, apparteneva al Professor Flamigni, Primario del reparto tossicologico. Guardò il portafogli. Il pensarlo vuoto gli mise tristezza e così, prima di andare nel padiglione che quel dottore dirigeva, restituì duecento euro del precedente prestito.
Arrivare al reparto tossicologico non fu difficile. Era a pochi metri dalla fine di quel corridoio e gli bastò tenere sempre la destra.
La porta del reparto chiusa a chiave non lo scoraggiò. Suonò il campanello, che emise un rumore tenue e quasi impercettibile, ed un’infermiera con grossi zoccoli ai piedi venne ad aprire. Chissà perché il rumore di quei passi suonava familiare. Chiese notizie del professore e come risposta ottenne dei vaghi “non so”. Decise di giocare d’azzardo presentandosi come ispettore di Polizia. La donna trasalì. Lui le mise in faccia la realtà ed a quel punto, sentendosi scoperta, ammise d’averlo visto morto nel bagno degli ambulatori. Non aveva parlato prima perché sospettava che il marito sapesse della loro relazione e l’avesse ucciso. Cosa fare? Fece radunare tutte le persone presenti in reparto, voleva interrogarle. In quel momento si sentiva davvero un funzionario delle forze dell'ordine.
Le infermiere di turno erano quattro, oltre alla precedente, tutte donne. Sedute nella camera della caposala si guardavano a vicenda come a spiare eventuali movimenti o tic sospetti. Le fece accomodare in corridoio chiamandole una ad una. La prima, di nome Sara, aveva un’età forse troppo giovane per il Primario; disse che non s’era mai mossa dalla stanza numero sei perché un suo paziente s’era sentito male ed aveva dovuto seguirlo costantemente. Sapeva della relazione che Flamigni intratteneva da qualche mese con Francesca, come del resto lo sapevano tutte le altre. Non era né sposata ne fidanzata e viveva con i genitori che erano già arrivati all’età della pensione. Sembrava tranquilla e niente la turbava. Il camice, forse troppo grande, nascondeva un bel corpo con sinuosità invitanti. La tessera, aggrappata alla parte bassa del colletto, riportava la foto identica al viso sovrastante.
Fece accomodare la seconda. Era robusta, di un biondo innaturale, ed indossava occhiali con lenti spesse. Un’enorme fede giganteggiava nell’anulare della mano sinistra e, come per fargli capire che era impegnata, gliela mise sotto gli occhi. Si capiva che non voleva avere storie di nessun genere, che era sposata e felice di esserlo. Sapeva della relazione ma se ne fregava in quanto, disse, chi si fa i fatti suoi vive cent’anni. D’altronde il professore era separato e poteva disporre come meglio credeva della propria vita. Il viso riempiva tutta la foto del tesserino di riconoscimento ed il nome, Mara, si leggeva a fatica. Era stata impegnata nella preparazione delle cartelle cliniche di due pazienti dimessi qualche ora prima; aveva visto il Primario per cinque minuti in tutto il pomeriggio in quanto gli aveva portato dei risultati arrivati dal laboratorio analisi. Riuscì a farla uscire chiamandone un’altra.
Si presentò una ragazza di circa trent’anni spaventata dalla notizia della morte del dottore; non lo conosceva bene. Erano solo due mesi che lavorava in reparto ed incontrarlo la metteva ancora soggezione. Aveva uno, parole sue, con cui conviveva e non sentiva il bisogno d’avventure, specialmente con uomini troppo maturi. L’anello che portava al dito era fine ed aveva uno smeraldo incastonato; le unghie lunghe, dipinte di un rosso intenso, risaltavano le dita di quelle mani ben affusolate che però, al momento, si tormentavano a vicenda. Il cartellino, fissato con una piccola clips al taschino, mostrava un viso sorridente che ancora lui non aveva visto, ed il nome, Pamela. Una mascherina con doppi elastici gravitava fra collo e mento nascondendo parzialmente la pelle vellutata ed ancora abbronzata. Disse che s’era scontrata con il professore nel vero senso del termine. Stava uscendo con alcune preparazioni dal laboratorio mentre lui entrava. L’impatto era stato inevitabile e, visto che alcune fiale s’erano rotte, aveva passato il resto del pomeriggio a prepararne altre identiche.
Entrò la quarta, non era un'infermiera ma un'inserviente. Non aveva nulla a che fare con Flamigni, anzi lui non la considerava proprio. Era stanca perché il pomeriggio l’aveva trascorso a pulire da sola le otto camere del reparto. La sua collega di turno s’era sentita male qualche ora prima ed era tornata a casa. Qualcosa preso dalla macchina automatica del corridoio l'aveva fatta vomitare. Non ricordava fosse un the o una cioccolata calda. Il volto della donna, serioso, fissava il tavolino di lamiera verniciata senza mai alzare lo sguardo. Le chiese se avesse pulito lei dopo lo scontro fra il dottore e Pamela, ma non sapeva nemmeno dove fosse avvenuto. Quella piccola femmina, momentaneamente spettinata ed anche trasandata, aveva qualcosa di particolare ed attraente. La sua timidezza era come una calamita, attirava gli uomini.
Francesca non stava bene; aveva il volto cereo ed il pianto nascosto da un sottilissimo foglio di carta velina. Non superava i trentacinque anni ed i capelli lunghi e neri, annodati con spilloni dietro le spalle, lasciavano il viso, dolce e triste allo stesso tempo, ben visibile. Aveva passato il pomeriggio, fino alle quattro, in reparto, poi era andata agli ambulatori dove, nel secondo bagno, aveva appuntamento con il professore. Non credeva che le altre sapessero di quella relazione ma temeva che il marito la seguisse. S'era accorta che ultimamente si comportava in maniera insolita; a volte lo trovava stranamente in corsia, oppure lo vedeva all’uscita, come se temesse di essere cornificato. Per quel motivo lei e Flamigni non s’appartavano più nell’ufficio ma in quella toilette che di pomeriggio risultava praticamente inutilizzata. Era rimasta scossa dopo averlo trovato morto, ma non poteva dare lei l’allarme. Dovevano essere altri a scoprirlo. Al ritorno s’era chiusa nello spogliatoio per sfogare il dolore piangendo; ed anche in quel momento disse di stare male. Sentiva la coscienza sporca. In quei tre mesi di relazione non aveva mai pensato ad un futuro con il Primario, non era amore il loro... facevano solo sesso. Una valvola di sfogo per non morire di noia e solitudine. Il suono attutito di un cellulare arrivò dal corridoio e, dal vetro posto in un angolo di quella stanzetta, videro Pamela rispondere e poi andare ad aprire la porta del reparto. Un uomo di circa quarant’anni stava entrando. Sia lui che l'infermiera si guardarono attorno. Non vedendo nessuno si sfiorarono con le labbra e si sorrisero. Francesca ebbe un fremito improvviso e dalla bocca le uscirono anche alcune imprecazioni... era suo marito. Capì che non andava per controllare lei ma per incontrare l’altra. Parlarono pochi secondi, quasi a trovare un accordo su cosa fare dopo, poi il traditore riprese la via già fatta in precedenza. Pamela chiuse a chiave e ricontrollò il corridoio; convinta che nessuno avesse visto ritornò in laboratorio sistemandosi il camice. 
Stavano fissandosi gli occhi; le lacrime erano sparite dal volto di Francesca, ora si notava solo un’espressione rabbiosa. Chiese d’essere lasciata sola. Lui si fece accompagnare nell’ufficio del Primario e la lasciò andare.

Chiuso fra gli armadietti dei medicinali ed i referti pensava a ciò che quelle donne avevano detto. Prese un libro di medicina che parlava di veleni e capì come e cosa avesse ucciso il Primario. La bava alla bocca ed il vomito erano sintomi inequivocabili. Il cerchio marrone ancora impresso sulla scrivania confermava le sue ipotesi. All’improvviso l’assalì un atroce dubbio. Aprì leggermente la porta lasciando un minimo di spazio per osservare il corridoio esterno. Era convinto che presto Francesca sarebbe uscita per andare da Pamela. Mentre spiava cercava di ricostruire la giornata di quel reparto.
L’unico uomo presente, il capo di tutte loro, arriva ed entra in ufficio; l’amante lo raggiunge e lui le dice che non ne vuole più sapere di quella relazione. Lei esce schiumando rabbia e pensando a come fargliela pagare. Non lo vuole uccidere, ma vederlo star male sì! Prende una dose leggera di veleno non appena lui esce per le visite; come lo vede tornare prepara una tazza di cioccolata in cui versa quel liquido che dovrebbe punirlo. Ma lui ha uno scontro con Pamela e perde tempo. L’inserviente vede il bicchiere di cioccolata lasciato sul tavolino e beve; dopo poco si sente male e va a casa. Francesca non sa che fine abbia fatto la bevanda leggermente avvelenata. Si accorge che lui sta ancora bene e deve far finta di niente, ma non può fargliela passare liscia. Quindi ne prepara un’altra, con ancora più veleno, e questa volta la lascia sulla sua scrivania. Lui la beve e si sente male. Esce dal reparto, probabilmente per recarsi al pronto soccorso, passando dalla via più breve, gli ambulatori; ma arrivato al bagno la situazione peggiora. Entra e si lava la faccia, tossisce cercando di vomitare ma non tira l’acqua ed il vomito non è nel water, segno che il veleno è ancora nel suo corpo. Arriva lei che l’ha seguito. Perché si chiude a chiave? Vuole completare l’opera? Lo vede steso e forse gli inietta qualcosa sotto l’unghia. Poi piange; per rabbia o perché si rende conto di ciò che ha fatto? Torna in reparto e continua normalmente il suo turno. Quasi quattro ore senza dire niente a nessuno. Poteva essere questa la giusta ricostruzione?
Improvvisamente un rumore di zoccoli lo fece tornare alla realtà. Francesca, immobile davanti alla macchina del caffè, aveva preparato due bevande ed in una stava versando del liquido. Coi bicchieri in mano si avviò verso il laboratorio. Appena vi entrò lui uscì dall’ufficio portandosi a ridosso della porta, voleva ascoltare le parole. Pamela aveva la voce alterata. Chiedeva dove fossero i soldi, che fine avessero fatto. L’altra non sapeva rispondere, diceva d’aver sentito un rumore e di essere uscita dal bagno per paura che qualcuno la vedesse. Che era tornata dopo dieci minuti non trovando più la busta. Maledivano la Polizia. Nel corridoio s’erano radunate le altre donne; lui mise un dito sulla bocca, per farle stare in silenzio, e le fece avvicinare perché ascoltassero. La prima stava ancora chiedendo informazioni sui soldi. Non vi era risposta abbastanza convincente che la soddisfacesse. L’altra si giustificava dicendo di averlo trovato già morto. Il veleno che gli era entrato in corpo, dopo l’urto, aveva agito troppo velocemente. Il sacchetto non era nella tasca dei pantaloni e, quando aveva visto il portafoglio nel taschino, c’era stato il rumore. Poi passò al contrattacco chiedendo conto del bacio dato al marito. Ora stavano litigando. Le voci s’incrociavano e si capiva a fatica il significato delle loro frasi. Pamela disse d’aver capito perché i centomila euro erano spariti, era una vendetta la sua! L’avevano ideato insieme quel piano e dovevano dividere in parti uguali. Il denaro le serviva e non aveva intenzione di lasciarglielo, a costo di andare da quell’ispettore e dirgli tutto!
Francesca cercò di calmarla offrendole la cioccolata, poi disse che i soldi erano nel suo armadietto. La invitò a bere e a non preoccuparsi. Ancora poco, il poliziotto se ne sarebbe andato e loro avrebbero diviso. Lui aprì la porta avvicinandosi alle due complici. Prese i bicchieri chiedendo all’inserviente di metterli in un luogo sicuro. Senza parlare le fissò con l’aria greve di chi sa tutto. Le infermiere e l'inserviente, radunate a capannello attorno a loro, facevano da cornice a quella strana scena. Chiese chi avesse intenzione di parlare per prima, alludendo ad eventuali sconti di pena per chi avesse collaborato, e Pamela guardò le altre negli occhi ed esplose in un pianto. Diceva che tutte sapevano delle false generalità del Primario, che la laurea l’aveva comprata ed esercitava abusivamente. S’era fatto tanti soldi... perché non approfittarne? Disse che aveva portato il denaro ma prima di darglielo voleva delle garanzie; Francesca non poteva permettersi di parlare perché tutti sapevano che era la sua amante, per questo voleva che anche lei si compromettesse e guadagnasse quei soldi con una prestazione sessuale. Voleva la sicurezza che fossero i primi e gli ultimi che spendeva. Quando cercò di abbracciarla e baciarla si difese con il vassoio e fu in quel momento che le fiale dei veleni si ruppero. Erano diversi fra loro ed il professore tagliandosi avvertì subito i crampi, perciò decise d’andare al Pronto Soccorso. A quel punto intervenne Francesca. Disse d’averlo seguito fino al bagno, d’aver aspettato prima d’entrare e una volta all’interno, vedendolo steso senza vita, d’avergli sfilato la busta con i soldi. Poi, al ritorno, s’era chiusa nel suo ufficio a smaltire la tensione. Dichiarò che non lo voleva morto, che era stato un tragico errore. Non si sentiva soddisfatto da ciò che aveva sentito; le chiese di seguirlo fino al bidone della spazzatura e la fece frugare e togliere tutto quello che si trovava al suo interno. Oltre a guanti e garze sbucarono una siringa ed altre due fiale. L’inserviente commentava dicendo che ancora non era riuscita a pulire perché costretta a lavorare sola in quel pomeriggio. Mise tutto in alcuni sacchettini di plastica e riguardò fisso gli occhi di quella donna, erano chiusi. Aveva capito di non avere vie di fuga perché lui sapeva. Vedendo la siringa anche Pamela capì che le piccole ferite provocate dalle fiale rotte non l’avevano ucciso ma solo stordito, che  una puntura aveva finito l’opera da lei iniziata. Cominciò ad urlare e ad offenderla fino a quando anche Francesca esplose. Parlò della loro relazione, di come la trattasse e l’umiliasse. Disse di sapere che lui avrebbe voluto fare sesso con la sua complice e pure che lei era l’amante del marito. Dovevano morire tutti, anche il suo uomo. Aveva il veleno già pronto e solo da versare o iniettare!
Corse verso l’armadietto e, prendendo una siringa, gli si lanciò contro. Riuscì a bloccarla appena in tempo. Prese dei lacci emostatici, legò i polsi ad entrambe chiudendole a chiave nel ripostiglio. Era l’ora di chiamare la vera Polizia. Seduto sulla poltrona di Flamigni immaginava scene di sesso; quanti segreti nascosti al mondo in un piccolo reparto. Il professore che non era un vero Primario e neppure un vero dottore, l’amante tradita anche dal marito, l’altra che aveva un uomo con cui conviveva ed uno che la andava a trovare al reparto dove si trovava anche la moglie. Sarebbe stata una buona trama per un romanzo giallo. Prese il telefono e digitò 113; disse al poliziotto del morto nel bagno e dell’assassina legata in reparto. La voce nella cornetta voleva sapere il suo nome... non fu accontentata. Si avviò verso l'esterno chiedendo all’inserviente di raccontare tutto agli agenti. Appoggiò i sacchetti con le prove sul tavolino accanto alla macchina del caffè e le disse che aveva un impegno improrogabile e doveva andarsene. Si fidava di quella donna che aveva nella timidezza il suo maggior fascino.

Uscì passando dagli ambulatori. Di fronte ai bagni s’era già radunata tantissima gente. Chiese cosa fosse successo e gli venne risposto che un noto Primario, una persona rispettabilissima, era stata trovata morta e forse si trattava d’infarto. Erano ormai le dieci di sera, stava tornando a casa. Doveva assolutamente scrivere ciò che gli era accaduto prima di scordarsene. Si rendeva conto che la sua mente da qualche tempo faceva i capricci, ma ora ricordava tutto perfettamente. Dora ed i bambini erano morti nel rogo scaturito dal cortocircuito dell’albero di Natale... perché una fine così tragica? Accese una sigaretta; al contatto con l’aria di quel Dicembre il fumo era più denso del solito e si librava nell’aria senza disperdersi. Camminava senza fretta, sarebbe arrivato certamente in tempo. Doveva semplicemente entrare nell’ultima stanza di casa sua e sistemare le cose. Aprì la porta accendendo la luce; le rimanenze del pollo puzzavano perciò decise di gettarle nel cestino dei rifiuti. Prese l’acqua e prima di lavarsi la faccia ne bevve un sorso; doveva assolutamente spegnere quel fuoco. Si rese conto d’aver lasciato la termocoperta nel tram. Accidenti alla memoria, possibile che quando era impegnato nel suo lavoro non riuscisse a tenersi niente in mente? Ora ricordava cosa faceva per vivere... anzi, per sopravvivere. Aprì l’ultima porta dell’appartamento, lo accolse la sua usuale confusione. Accese il computer... non doveva assolutamente scordarsi di pagare la bolletta dell’Enel. Accidenti! Dove aveva nascosto i soldi? Forse nel cassetto del comò, o forse nel barattolo vuoto dello zucchero. Cercò di far mente locale. Erano in casa e di certo non sarebbero spariti, però doveva trovarli entro le nove. Grazie a quel finto dottore avrebbe sistemato la sua traballante situazione. Non si sentiva un ladro ed aveva la coscienza tranquilla, in fondo si era messo in pari scoprendo chi l’aveva ucciso! Si sedette quando nello schermo comparvero le icone da scegliere; pigiò sul mouse facendo apparire un racconto intitolato “Natale di fuoco”, il nome dell’autore era il suo. Ora ricordava tutto. Avrebbe modificato il finale, Dora ed i bimbi non dovevano morire. Cambiando il titolo tutto sarebbe andato a posto. Cominciò le correzioni ed appena finito aprì un file vuoto cominciando la cronaca di quella giornata. Dopo poco iniziò a lavorare di fantasia così che passò tutta la notte sulla tastiera.

Dalla finestra filtrava la luce del giorno e nell’angolo dello schermo l’orologio segnava le otto e cinquantanove. Ricordava di dover fare qualcosa di molto importante ed urgente prima delle nove, ma cosa? All’improvviso lo schermo si spense, contemporaneamente anche la lampada che pendeva dal soffitto. Accidenti, non si spiegava cosa stesse succedendo. Provò a schiacciare sull’interruttore... tutto restava ugualmente muto e spento. Cosa doveva fare prima delle nove? Troppe ne aveva nella mente da scrivere che altro non riusciva a fare. Come al solito, certamente, aveva dimenticato qualcosa... ma cosa?

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